Regia: Roman Polanski
Anno: 2013
Thomas Novacheck, dopo una frustrante giornata di audizioni, non ha ancora trovato la protagonista della sua nuova pièce, quando irrompe per un provino Vanda, bella, sboccata e grossolana. Inizialmente scettico, Thomas sarà stregato dal suo fascino pericoloso.
Non si sa perché, ma i personaggi di Roman Polanski riescono sempre a cacciarsi in un cul-de-sac reale e/o metaforico dal quale diventa impossibile uscire, se non abbandonando le proprie maschere di facciata.
Personaggi sospesi, galleggianti alla deriva sul pelo dell’acqua e delle ipocrisie. In un’apnea di incomunicabilità angosciante, cinti dalle alte maree dell’esistenza (la barca a vela sul lago di Il coltello nell’acqua, “Nóż w wodzie”, 1962, i sentimenti in tempesta di Luna di Fiele, “Bitter moon”, 1992, la melma torbida di Chinatown, le isole bagnate da correnti funeste di Cul de Sac, 1966 e L’uomo nell’ombra, “The Ghost Writer”, 2010).
Oppure chiusi a chiave tra stanze e appartamenti dove esplodono incubi demoniaci (Rosemary’s Baby, 1968), conflitti interiori (L’inquilino del terzo piano, “Le locataire”, 1976) e rabbiose mattanze dialettiche (Carnage, 2011), o il dolore di una solitudine (s)confinata (Il Pianista, 2002).
Con Venere in pelliccia, “La Vénus à la fourrure” (tratto dall’omonima opera teatrale di David Ives, a sua volta adattamento del romanzo erotico datato 1870 di Leopold von Sacher-Masoch) siamo di fronte al restringimento di campo (e di mondo) per eccellenza: il luogo della rappresentazione, lo spazio-palco scenico chiuso e rimbombante di un teatro di periferia.
Dal quale nell’incipit fanno il loro ingresso in sala, insieme a Vanda, tutte le ossessioni care a Polanski, forse per trovare un allestimento definitivo. La stessa operazione del suo alter ego Thomas (Mathieu Amalric), impegnato a filtrare la (ri)bollente e scandalosa materia letteraria di Sacher-Masoch.
In questa stratificazione di testi e (sadiche) pratiche di finzione (romanzo, teatro, cinema) non c’è tanto un generico discorso metatestuale sul rapporto coercitivo regista/autore-attore/personaggio, uomo-donna, realtà-finzione.
Il quesito è più circoscritto: quanto c’è di personale, di pulsante e di “vero” in un testo? E, parallelamente, fino a che punto il suo adattatore riesce ad essere impersonale e distaccato nell’accostarsi ad esso per (re)interpretarlo?
Polanski è radicale: non si può pilotare l’opera dall’alto e dall’esterno, mantenendosi al riparo, ammanettando il cuore e fustigando impunemente il testo. Secondo la prospettiva decostruzionista di Derrida, citato appena, “non c’è nulla al di fuori del testo”, che dunque si afferra solo perdendovisi dentro. Fino all’autolesionismo sado-masochista.
Così funziona anche per l’illusorio desiderio di possesso dell’altro. Novacheck, credendo di assoggettare arte e attrice, comincia con in mano il martello per finire sbattuto all’incudine, sotto i colpi di scena e di frusta, legato al palo e sottomesso al potere perverso della rappresentazione/seduzione.
La sua mancanza di controllo emerge anche dalla gestualità mimata con cui maneggia oggetti di scena invisibili (di cui però avvertiamo la presenza attraverso il sonoro). Come la penna imbracciata per firmare (in)consapevolmente il contratto di asservimento, ritrovandosi schiavo due volte, della donna e del gioco della finzione.
Il processo di (ri)scrittura, dice Polanski, se separato da manie e contraddizioni dell’autore diventa vuoto, inconsistente, aleatorio. Partorendo un prodotto amorfo, socialmente stereotipato.
Per una cultura appiattita, eterodiretta, a uso e consumo dei radical chic (la compagna di Thomas) che, nella provocazione di Vanda, “magari hanno un labrador chiamato Bourdieu”. Ignari di essere vittime passive della “violenza simbolica” degli schemi culturali teorizzata dal sociologo francese.
Ancora la critica di Polanski alla pochezza del mondo borghese intellettualoide, stavolta smascherata (come già in Luna di Fiele) dalla sensualità umbratile di Emmanuelle Seigner, personaggio naïf e rozzamente ignorante solo in apparenza.
(In)cultura di massa che lo stesso Novachek ripudia ricercando l’ambiguità, non l’ambivalenza, come cifra stilistica (lo ripete spesso a Vanda). Autenticità, rabbia, tensione fatale e sentimenti imperituri che Thomas riscoprirà sulla propria pelle, in un modo che non gli piacerà, o gli piacerà forse troppo.
Attraverso l’avvicendarsi delle varie figure-incarnazioni della Venere (impellicciata o meno). Presenti sotto forma di riferimenti pittorici espliciti (già contenuti nel romanzo) o suggeriti che compongono un ulteriore sottotesto iconografico.
La prima a fare capolino è la Venere allo specchio di Tiziano, con quel riflesso del volto di donna a incrociare lo sguardo dell’osservatore/spettatore. Poi il travestimento femmineo di Thomas, che assume caratteri surreali ed ermafroditi (uomo-donna legato/a al cactus fallico) quasi come nella Vestizione della sposa di Max Ernst.
Opera-simbolo di quella mise en abîme (una copia dell’immagine all’interno dell’immagine stessa) che Polanski applica per estensione al testo di riferimento: la sua Venere in pelliccia “contiene”, espande e riscrive quelle di Sacher-Masoch e David Ives all’interno di un “quadro” cinematografico d’autore.
Ri(finito) con l’immagine della Venere di Botticelli sui titoli di coda (accompagnata dalla splendida colonna sonora di Alexandre Desplat).
La sublimazione nella bellezza come ultimo approdo (salvezza? punizione?) del masochistico gioco dell’arte (di fare cinema).