Un sapore di ruggine e ossa

Regia: Jaques Audiard
Anno: 2012

La rieducazione emozionale di Ali attraverso la mutilata esistenza di Stéphanie.

Ali, subitaneamente catapultato nelle vesti di padre, si trasferisce col figlio Sam in un’assolata località del sud della Francia, alloggiando presso la sorella. Trovato lavoro come buttafuori in una discoteca, una notte, durante un’efferata rissa, s’imbatte nella bellissima Stéphanie, un’istruttrice di orche. Quando i due protagonisti incroceranno nuovamente le loro esistenze tutto sarà irrimediabilmente mutato: la donna, a seguito d’una funesta sciagura, vive adesso su di una sedia a rotelle, privata delle gambe.

È già la sinestesia del titolo Sapore di ruggine e ossa (2012) a introdurre il pubblico nello straniante palpito che anima l’ultima opera di Jaques Audiard: il torbido ed esangue rosseggiare della ruggine si tempera con lo scarnificato sapore delle ossa.

L’autore francese, esordiente nel 1994 con Regarde les hommes tomber non riesce, in questo lungometraggio consacrato all’approfondimento della trama psicologica di Stéphanie (Marion Cotillard), a sfiorare la coerenza interna che anima la sua precedente pellicola Il Profeta (2009). Era in quell’impegno cinematografico, infatti, apprezzato persino dall’industria hollywoodiana, che Audiard era stato capace di tratteggiare a chiare linee l’inconscio di Malik (Tahar Rahim), un antieroe magrebino che si faceva strada nel disgregato ambiente carcerario. La medesima intimistica abilità descrittiva non caratterizza, invece, Ali (Matthias Schoenaerts), coprotagonista di Un sapore di ruggine e ossa, uomo dall’indole abbozzata, che condivide con Malik solo l’energico vigore fisico, ma non la profondità intellettuale.

Nonostante il regista si distacchi dagli stilemi noir dei suoi precedenti film, mantiene  l’iperrealismo descrittivo di un microcosmo infimo e violento, continuando a focalizzare l’obiettivo sulla brutale realtà dei bassifondi urbani.

L’attenzione ossessiva alle suture dermiche, alle aeree vallate carnali e alle fisiche recisioni, rammenta il bisturi della Pelle che abito di Pedro Almodòvar (2011). Il violaceo occhio di Stéphanie incastonato in una femminilità, ferita nella forma ma non nell’essenza, è il lirico fil rouge che inanella le scene asfittiche, nonostante la costante presenza del mare, conducendole verso un catartico epilogo.

 La sceneggiatura è costantemente incentrata sull’accostamento di immagini antitetiche: l’armonia del corpo maschile stride con le linee interrotte della figura femminile, la complessità emozionale della donna s’interseca con il monolitico spessore dell’uomo, il paralizzato universo di Stéphanie s’incrocia continuamente con il dinamico spazio della movida notturna e così via. Gli amplessi consumati in spazi bui e fatiscenti, una fotografia che focalizza sui colori caldi del piacere della carne e l’incontro, tutto femminile, tra pudore e audacia riecheggiano i sapori francesi di The Dreamers (2003) di Bertolucci.

La simbologia dell’acqua accompagna ogni spiraglio del racconto secondo una chiara e meditata struttura circolare: acqua che dona speranza, che distrugge, che vìola, che uccide, ma che purifica come estremo suggello.

È un viaggio sentimentale scorto dagli estenuati occhi della protagonista che, con femminea fierezza, modula il dramma di un’esistenza a metà; una donna frustrata nelle proprie certezze, spogliata della propria armonica presenza, ma ancora capace di sentire e provare grandi slanci emozionali.

Da contraltare funge la bestiale e aitante possanza di Ali che, nelle sue erculee movenze, signoreggia sulla tremante vicenda. È una parvenza positiva, suo malgrado, una silhouette che, inconsapevole, trae dal baratro Stéphanie, conducendola ad una lenta ma progressiva riappropriazione della propria esistenza. Muto, sin quasi all’inaspettato finale, è Sam che con la lenta e costante forza dell’acqua smussa e plasma il coriaceo padre.

Intensi i dialoghi, spezzati da profondi e congrui silenzi; gli incessanti chiaroscuri quasi caravaggeschi e la luminosità, colta sempre di scorcio, ispessisce le sagome dermiche dei protagonisti, rendendoli padroni della tela scenica. Accostamenti pindarici, velate allusioni, poliedricità di argomentazioni trattate, riescono talvolta a straniare e a confondere, immergendo il fruitore quasi in un melting pot di situazioni abortite, non portate a esaustiva conclusione.

Il film, nonostante non riesca a mantenere viva l’attenzione per tutta la sua durata, merita di esser visto, anche in virtù dell’importante tematica trattata; la perizia espressiva di Marion Cotillard, oscar per il personaggio di Edit Piaf ne La vie en rose (2007), è il prezioso sigillo dell’ultima fatica del cineasta francese.

[adsense]