Un’estate da giganti

Regia: Bouli Lanners
Anno:
2012

Il percorso di crescita e maturazione dall’infanzia all’età adulta non è certo scevro di ostacoli e complicazioni; così come non è privo di quell’anarchismo adolescenziale a cavallo tra l’emancipazione volontaria e il mero antagonismo autoreferenziale. E proprio di percorso si tratta quello che coinvolge e stravolge tre ragazzini belgi, abbandonati a loro stessi tra le tortuosità naturali della campagna vallone e quelle non meno disorientanti di un’estate senza genitori.

 I due fratelli Zak e Seth trascorrono le vacanze nella casa del nonno, morto l’anno prima, alla ricerca esasperata di un modo per riempire giornate senza senso, in cui trasgressione e ribellione sembrano essere l’unica via d’uscita da una solitudine trascinata e non voluta. La madre dei due, infatti, lavora a Bruxelles e non sembra interessarsi dei figli se non con qualche sporadica chiamata, mentre l’amico che incontrano, Dany, subisce costantemente le vessazioni del fratello maggiore e l’indifferenza dei genitori anziani.
In un ambiente in cui nemmeno la bellezza naturale fornisce alcuna soluzione consolatoria, i ragazzi si trovano a vagare senza meta tra fiumi e boschi, sperimentando qualunque cosa rappresenti un’alternativa al grigiore quotidiano: fumo, effrazioni, accordi scellerati (come quello con uno spacciatore di marijuana, Toro, e conseguente perdita della casa). In una progressiva e ineluttabile discesa verso l’allontanamento definitivo dal mondo che di lì a poco hanno frequentato, i tre ragazzini trovano temporaneo sollievo nelle attenzioni di una donna e della sua figlia down, salvo poi andarsene nuovamente, inghiottiti definitivamente dalla campagna circostante.

Bouli Lanners (Ultranova, 2004; Eldorado, 2008) affronta ancora una volta lo spirito libertario del viaggio caricandolo delle sfumature evasive e contrariate del mondo giovanile. E lo fa con il rispetto di chi sa porsi al di là della barricata senza pedanterie pedagogiche o empatie caricaturali; lo fa lasciando parlare e agire i ragazzi oppure adottando un punto di vista privo di inadeguati toni accusatori. Ecco che il Belgio diventa la nuova frontiera americana, quella che dà voce al desiderio di rivalsa e ricerca, quella che si snoda in strade (qui fiumi) e anfratti da smembrare e colonizzare con l’unica ragione che spinge l’azione: l’istinto di muoversi.

Per citare Jack Kerouak: “Dobbiamo andare e non fermarci finché siamo arrivati. E dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”.

E così Seth, Zak e Dany vanno. Dove? Non è importante. Quello che conta è la piena consapevolezza di ciò che si lascia. Consapevolezza che nasce dal contatto con adulti quasi grotteschi, caricaturali; figure prive di empatia e interesse che hanno perso, ormai da tempo, il loro ruolo guida.

Lanners concatena gli eventi senza ansie sensazionalistiche, lascia spazio ai silenzi, ai piani sequenza su un ambiente rurale tanto simile ai paesaggi del Mississippi (complice anche la colonna sonora dei The Bony King of Nowhere) in cui il fluire del fiume detta, coi suoi tempi, le sue curve, le sue correnti i moti d’animo dei giovani protagonisti. Sono nuovi Huckleberry Finn, nuovi Christopher McCandles (Into the Wild, Sean Penn, 2007), nuovi Chris Chambers (Stand by Me, Rob Reiner, 1986). Così come sono nuovi figli di un mondo che chiede severamente di diventar adulti da soli. E lo si diventa abbandonando tutto.

Quello che è stato criticato come finale mancato, in realtà rivela più di qualsiasi scontatezza filantropica: nel momento in cui i ragazzi prendono la barca e se ne vanno, non c’è più altro da dire. Che ne sarà di loro poco importa. Vivranno? Moriranno? Non spetta a noi vederlo. Sembra quasi che Lanners voglia affidare allo spettatore quel ruolo di cura e guida che gli adulti nel film apertamente rifiutano e che, impossibilitato (per ovvie ragioni) a interpretarlo, non sia più nemmeno degno di assistere al futuro di chi dovrebbero monitorare. Come a dire: “Se non puoi accompagnarli nel cammino verso l’età adulta, lascia che vadano da soli. Il tuo compito qui è finito”.

Un’opera dai delicati contorni on the road, Un’Estate da Giganti riconferma il talento del regista belga e si pone, senza pretese, a cavallo tra il film di formazione e quello di avventura, sebbene l’avventura qui sia decisamente sotto tono e la formazione assuma tratti appena accennati ma fortemente significativi. Da gustare in silenzio.

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