Regia: Silvio Soldini & Giorgio Garini
Anno: 2014
Il cinema di Silvio Soldini e Giorgio Garini allarga i propri orizzonti, non soltanto geografici ma anche culturali.
Un albero indiano segue il viaggio in India di Felice Tagliaferri, scultore non vedente ormai noto a livello internazionale e già co-protagonista della precedente opera firmata dalla coppia di registi, Per altri occhi (2013).
Questo nuovo film costituisce di quel documentario un vero e proprio spin-off, concetto tanto caro alle serie televisive moderne e post-moderne (Buffy the vampire slayer/Angel; Party of five/Time of your life; CSI/CSI: Miami) ma che nell’ambito del documentario rappresenta una scelta piuttosto innovativa.
La volontà di raccontare nuovamente un’esperienza della vita di Felice nasce dall’incontro di Soldini, Garini e Tagliaferri con l’associazione non governativa CBM, impegnata nei Paesi in via di sviluppo per la prevenzione la cura della cecità e delle disabilità evitabili.
Dopo Un paese diverso (2008) e Per altri occhi, Soldini e Garini – macchina in spalla in condizioni non proprio agevoli – dirigono ancora una volta insieme e ci mostrano l’avvio del laboratorio di lavorazione della creta che Felice ha intrapreso alla Bethany School di Shillong, nel nord-est dell’India: una scuola inclusiva in cui, come affermano nel film la direttrice della scuola Rosa Wahlang e un’insegnante, il personale docente “non insegna alfabeti, ma abilità” (“we don’t teach alphabets, but skills”).
Gli autori ci avvicinano a un universo in cui le condizioni di estrema povertà della popolazione non impediscono ai bambini di sorridere e a questi sorrisi di sommergere letteralmente Felice e con lui lo spettatore del film.
Un albero indiano non è tuttavia un’opera idilliaca: non cerca di nascondere la realtà di un Paese il cui tasso di mortalità di bambini non vedenti, talvolta legati in capanne buie, è elevatissimo a causa di una cultura che discrimina i disabili, forse per la generale mancanza di istruzione. Al contempo però la regia non indugia in situazioni e dettagli che potrebbero suscitare compassione, evitando quelle inutili forme di pietismo su cui spesso fanno leva i media contemporanei.
L’intento dell’opera è mostrare che il vero handicap non è la disabilità ma la forma-mentis che iniziative come CBM e la Bethany School cercano di cambiare.
Il risultato è evidente e traspare proprio da quei sorrisi, dall’entusiasmo e dalla passione degli insegnanti, dalla carica vitale di Felice che non si stanca mai (“Come puoi stancarti di fare ciò che ami?”) e da quell’albero che adesso domina il cortile della Bethany School.