The true false identity, album del musicista T Bone Burnett uscito nel 2006, andrebbe ascoltato più e più volte. Riscoperto, sviscerato e immagazzinato all’interno del proprio bagaglio culturale perché si sia consapevoli che autori di questo calibro – in particolar modo al giorno d’oggi – non possono prescindere da fattori esterni che incombono sullo stato psico–fisico dell’artista e che, anche se in maniera generica, tracciano prioritarie coordinate per comprendere meglio la nostra personalità.
Sono ormai passati otto anni da quando abbiamo ascoltato per la prima volta Zombieland ma nonostante il panorama musicale – per non parlare di quello cinematografico – sia cambiato; parole come quelle varranno ogni qual volta si vorrà circoscrivere le gesta di un uomo in debito con il mondo che lo circonda: atterrito o terrorizzato, incompiuto o disagiato davanti alle grandi sfide con le quali giorno dopo giorno dovrà scontrarsi.
True Detective è tutto questo.
Ieri (3 ottobre quando è stato scritto l’articolo) i primi due episodi trasmessi su Sky Atlantic.
Non è un film ma neppure una serie televisiva. Non si è davanti ad un formato ad episodi, se non in senso strettamente letterale de termine; si assiste sì, ad una crescita dei personaggi lungo tutto lo sviluppo narrativo dell’opera, ma una volta individuati i caratteri dei personaggi, si è quasi costretti ad assistere inerti al loro destino, succubi e senza via di scampo. Senza poter controbattere e sperare nella redenzione al capitolo successivo come ogni serie ci aveva abituato fino al giorno d’oggi.
Si sa già da principio l’esito della vicenda, si conoscono le loro mosse fin dalla prima puntata, i loro caratteri fin dal loro primo colloquio, i loro pensieri fin dal loro primo interrogatorio; ciò nonostante ci si ritrova ipnotizzati davanti a delle figure dal temperamento antitetico, agli antipodi. Che davanti a delle guerre ideologiche e introspettive non possono tirarsi indietro. Siamo ormai schiavi dell’orrore a quale siamo sottoposti e di conseguenza non possiamo farne a meno. Questo sì, è senza dubbio dovuto al velo che ricopre la nostra sensibilità comune, una membrana impermeabile forgiata dall’esperienza che ci rende impassibili davanti alle conseguenze dell’inciviltà. Non ci si chiede il motivo, semplicemente si prosegue lungo una narrazione che ci attanaglia capitolo dopo capitolo.
True Detective è l’esperimento più riuscito dell’anno e NON lo sarà delle prossime stagioni.
Un oggetto non ben identificato, una creatura che si aggira settimanalmente sul piccolo schermo con atteggiamento e proporzioni tipiche del grande schermo. La struttura della vicenda e il complesso lavoro di scrittura intrapreso dal creatore ed unico sceneggiatore Nic Pizzolatto assieme al regista Cary Joji Fukunaga, è un panorama d’altissimo livello visivo e cinematografico. Otto ore d’eccellente percezione d’ambienti, ritratti, vicende e corrispondenze condite da performance attoriali ormai di culto tra gli amanti del piccolo e grande schermo.
True Detective e tutto questo. Religione e Politica. Cinema e Televisione. Solitudine e Romitaggio. Sesso e Perversione. Morale e Poesia. L’intero e il Parziale.
E nonostante l’autore (Nic Pizzolatto) trovi inopportune alcune affermazioni della critica, secondo le quali il suo prodotto sia dotato di una certa “qualità cinematografica”; poiché a detta sua, la televisione degli ultimi dieci anni ha prodotto serie di gran lunga superiori alle pellicole destinate al grande schermo; noi ci sentiamo in dovere di rincuorarlo:
Serie e Cinema non possono essere paragonate. Poco importa del lungometraggio, del medio o del corto; del seriale, dell’antologica o episodica. Si avvalgono di diversi tempi, di diversa scrittura, di diversi giocatori in diverse partite… anzi proprio diversi sport.
Accomodatevi e state zitti.
Oggi tutto è cinema; l’unica cosa che praticamente cambia è dove e come lo si vede. (Gore Vidal)