This Must Be The Place

Titolo: This Must Be The Place
Anno: 2011

Paolo Sorrentino riconferma il suo talento dietro la macchina da presa dirigendo l’eccentrico Sean Penn in un’avventura on the road attraverso gli Stati Uniti

Prendete David Byrne, vestitelo di bianco, mettetelo su un palco e fategli cantare una meravigliosa nuova versione di This must be the place (pezzo dei suoi Talking Heads) di fronte a una sala piena di fan. Nel frattempo, una ragazza è impegnata a sfogliare una rivista e a battere il piede a tempo di musica, comodamente seduta su una poltrona. Piccolo particolare: la poltrona è adagiata su un palcoscenico mobile, che si alza, ruota di novanta gradi su se stesso e si muove verso la folla, superando Byrne e i suoi musicisti fin quasi a toccare gli spettatori, tutti in visibilio. Tutti, tranne Cheyenne (Sean Penn).

Il lunghissimo e complicatissimo piano sequenza dell’esibizione di Byrne è sicuramente la scena più memorabile di This must be the place, primo film in lingua inglese di Paolo Sorrentino, che segue per l’appunto l’ex-rockstar Cheyenne nel suo viaggio attraverso gli Stati Uniti alla caccia del nazista che ha umiliato il padre, ormai defunto, nel campo di concentramento di Auschwitz.

Le inquadrature rigorose, studiate fin nei minimi dettagli, le innumerevoli carrellate, le maestose panoramiche dei paesaggi americani, i colori saturi, la macchina da presa che osa anche un tuffo in piscina: This must be the place è tutto questo, e anche di più. È un’esperienza visiva catalizzante, a tal punto da far perdere, perlomeno alla sottoscritta, l’attenzione per la trama.

Trama che, ad essere onesti, non brilla di particolare originalità (durante tutta la parentesi statunitense siamo di fronte a nient’altro che un semplice road movie), così come la sceneggiatura: i dialoghi soffrono di una certa banalità, anche se, vista l’indole un po’ ingenua e stralunata di Cheyenne, si potrebbe in realtà pensare ad una banalità voluta. In ogni caso, la visione in versione originale è d’obbligo se si vuole godere appieno della performance di Sean Penn, che si riconferma per l’ennesima volta uno dei migliori attori in circolazione: con ogni minimo movimento dei muscoli del suo viso, il blu intenso dei suoi occhi, il suo camminare sbilenco e la sua voce in falsetto caratterizza il personaggio come pochi altri avrebbero saputo fare.

La colonna sonora, scritta dallo stesso David Byrne e che alterna svariate cover di This must be the place a brani inediti della band fittizia The Pieces Of Shit, è perfetta, aspetto non nuovo nei film del regista partenopeo, che da sempre sa fondere musica e immagini in maniera magistrale (si pensi, ad esempio, ai fantastici titoli di testa de Il divo).

Nel corso degli anni Sorrentino ci ha abituati bene, e questa trasferta americana, l’ennesima riconferma del suo talento, non può che lasciarci in attesa di nuovi, passatemi il termine, orgasmi visivi.