Regia: Kathryn Bigelow
Anno: 2008
Una storia di guerra dove l’elemento dominante è il silenzio invece dei soliti assordanti colpi di mitra.
Dopo K-19 (2002) la Bigelow torna a parlare di guerra, o meglio di uomini che fanno la guerra. Perché The Hurt Locker (2008), scritto da Mark Boal già autore di Nella valle di Elah (“In the Valley of Elah”, Paul Haggis 2007), è soprattutto una storia di uomini, di persone prima che di soldati. Vincitore di sei premi Oscar, tra cui miglior film e migliore regia, la pellicola affronta il lavoro di una squadra di artificieri impegnata in Iraq a scovare e disinnescare ordigni.
L’intera narrazione è basata sul susseguirsi di questo tipo di operazioni, più o meno riuscite, significative soprattutto per l’esplorazione umana dei personaggi e per l’interazione tra diverse personalità, oltre che per portare a conoscenza dello spettatore comune una realtà dalla quale spesso ci si sente troppo lontani.
La vicenda nasce da un’operazione andata male che provoca la morte di un soldato poi sostituito da William James (Jeremy Renner). Willy è un ragazzo senza paura, che fa del pericolo la sua ragione d’essere, nonostante abbia a casa moglie e figlio ad aspettarlo. Il suo estremo coraggio, che sconfina spesso nell’irresponsabilità, lo porterà a scontrarsi con i suoi due compagni di squadra: il sergente J.T. Sanborn (Antony Mackie), responsabile, attento, che non corre pericoli inutili, e lo specialista Owen Eldridge (Brian Geraghty), decisamente più timoroso.
Del film colpisce in maniera immediata il silenzio e la desolazione di certi spazi aperti, che rendono l’uomo solo davanti al pericolo. Questa solitudine permette un accentramento significativo dell’attenzione verso la componente umana, piuttosto che indirizzarsi verso l’aspetto bellico. Raccontare la guerra per raccontare chi è che si trova a combattere, quali sono gli stati d’animo che governano l’uomo in situazioni così estreme, ricorda senz’altro un capolavoro assoluto come La sottile linea rossa (“The Thin Red Line”, Terrence Malick 1998).
L’attenzione verso l’essere umano piuttosto che per la divisa è sicuramente un pregio del film, soprattutto se associato all’uso della camera a mano, che, anche se troppo ballerina, è sempre molto vicina ai protagonisti che lega di conseguenza lo spettatore ad essi.
Altro elemento da annotare, limite o fortuna, è senz’altro l’alternarsi di piani fissi con quelli a spalla, che danno a volte un senso di spaesamento grazie anche ad un montaggio spesso molto serrato. Tale spaesamento è dato anche dal punto di vista, della regista e quindi dello spettatore, che per la maggior parte dei casi è legato ai militari (noi vediamo quello che vedono Willy, J.T. e Owen), per poi all’improvviso rendersi onnipresente (si vedono personaggi e luoghi invisibili ai protagonisti), e offrire così maggiori informazioni allo spettatore. In questo modo la Bigelow crea della suspense che a volte si alterna alla sorpresa, anche se quest’ultimo resta il meccanismo preponderante.
The Hurt Locker è sicuramente un film da vedere per il linguaggio, per un racconto della guerra, così raro da vedere in sala, basato sulle personalità dei protagonisti. Gli elementi di spaesamento potranno risultare a tratti non semplici da sopportare, ma è comunque un esempio di cinema da tenere presente anche per questo.
Unico elemento davvero sfavorevole è probabilmente legato alla durata e quindi alla scrittura. La trama è povera di colpi di scena, gli avvenimenti che si susseguono sono simili tra loro, quasi ridondanti, e trattandosi di un film di circa 2h e 11’ alla lunga rischiano di stancare.
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