Regia: Uberto Pasolini
Anno: 2013
John May è uno scrupoloso impiegato comunale che si occupa di rintracciare i parenti di persone morte in solitudine. Quando il capo gli annuncia il licenziamento, John prende a cuore il suo ultimo caso, un defunto alcolista, come occasione per riscoprire se stesso e fare i conti con un’esistenza grigia e avara di affetti.
Elogio della “buona” lentezza. Potrebbe essere questo un sottotitolo dell’ultimo film di Uberto Pasolini (rivelazione alla Mostra del Cinema di Venezia 2013). Per un titolo felicemente ambiguo come la vita incolore e insapore, eppure intensamente emozionale, del suo protagonista.
Still Life: vita calma, immobile, immota e silenziosa. Ma forse, anche, la vita che c’è “ancora”, o che potrebbe ancora esserci, se solo, per una volta, le permettessimo di farci trovare pronti.
Perché se da una parte Pasolini invita alla lenta esplorazione del gesto e dei sentimenti, alla perizia paziente e sincera con cui ci si prende il tempo necessario a seguire le proprie passioni (“Io amo il mio lavoro” dice John May), alla contemplazione sincera e (s)misurata della dignità umana, dall’altra è cosciente che la vita a volte va semplicemente afferrata al volo, rapita prima che lo faccia lo morte al posto nostro, senza fare complimenti.
Addentata a morsi e senza rimorsi, come quando John assaggia uno strano pasticcio di carne in un gesto che, assieme ad altri (una cioccolata al posto del tè nero, un gilet celeste a sostituire gli abiti scuri, uno yogurt raccolto in strada invece del solito tonno in scatola con pane tostato e mele sbucciate), diventa una piccola, immensa rivoluzione.
Fermarsi a guardare e capire, invece di restare fermi, incollati allo sfondo come la sagoma di un semaforo pedonale. Sfogliando le pagine di quell’album di fotografie di defunti che John conserva nel suo appartamento.
Facce e ricordi di vite sconosciute e mai condivise, ma a cui prova lo stesso a restituire la giusta (?) dignità (come per il toccante elogio funebre della donna sola che scrive lettere alla gatta). Archivio di memorie irrintracciabili e dimenticate da tutti, sepolte senza troppi convenevoli come le salme solitarie abbandonate in Chiesa.
La regia di Pasolini imbalsama il protagonista (enorme interpretazione di Eddie Marsan, solida carriera di caratterista alle spalle) in un “teatro di pose” rigide e ingessate. Nascosto dentro asettiche tute bianche, guanti e cuffiette di lattice, sempre al riparo dai contatti e dal contatto con il mondo (dei vivi).
Chiuso e stretto in spazi angusti (l’ufficio, l’appartamento, l’obitorio, le cappelle) tra sedie, sbarre, scatole, scrivanie, scaffali e faldoni. Quasi un soprammobile con la ventiquattrore. Statua immobile anche a passeggio per la strada, coi passanti che gli sfilano davanti senza quasi notarlo. Pezzo d’arredamento muto e marmoreo come una lapide. Piccolo monumento a una causa che sembra non interessare più a nessuno. Omino incassato in un baratro di solitudine anaffettiva come in una cassa da morto.
Che sembra respirare davvero solo quando si sdraia sul prato del cimitero. Nel lotto di terra scelto per la tumulazione, da cui si gode un panorama migliore della vi(s)ta del quotidiano. Dietro quelle finestre da cui John osserva il palazzo dirimpetto. Quella stanza vuota e funerea che in un controcampo impossibile sembra osservarlo. Rimproverandolo di non avervi scoperto in tempo la vita al suo interno.
La familiarità di John con la morte non è un attaccamento morboso e malato. Ma, semplicemente, l’unico modo per trovare conforto e vicinanza nelle persone (non importa se defunte). Che per lui sembrano rimanere lontane, tenute a distanza. Come i parenti dispersi che lo stesso John tenta infaticabilmente, quasi sempre invano, di rintracciare e (ri)avvicinare.
Still Life, allora, non è certo un tetro elogio funebre, ma un amaro e speranzoso inno a scoprire la vita. Anche, anzi soprattutto quando sembra troppo tardi per farlo.
Perché, come si sente dire John, “il tempo non aspetta nessuno” e senza il nostro intervento, lascia le cose lì dove stanno: i rapporti umani sfaldati e in disordine e gli oggetti inanimati ottusamente, inutilmente in ordine (nel finale, gli scaffali vuoti, la tovaglietta sul tavolo, l’album fotografico sulla scrivania). Vivi o morti non importa più. Ciò che conta è, per una volta, non essere rimasti fermi.