Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2013
A Bangkok, l’americano Julian gestisce un club di thai boxe come copertura per traffici di droga. La notte successiva ad un incontro, suo fratello Billy uccide una ragazzina dopo averla stuprata, finendo poi barbaramente massacrato per rappresaglia. Per Julian sarà l’inizio di una spirale di violenza inarrestabile, costretto da una diabolica madre padrona alla resa dei conti con un mistico e letale angelo vendicatore.
Vedendo alcune sequenze di Solo Dio Perdona – Only God Forgives, vengono in mente quei bastoncini d’incenso da interni, tipicamente orientali, che una volta accesi cominciano a bruciare a combustione lentissima. Spargendo tutt’intorno, a poco a poco, l’odore intenso e pervasivo della loro essenza, fino ad assuefare i sensi.
Il film di Nicolas Winding Refn, presentato in concorso e accolto tiepidamente al Festival di Cannes 2013, funziona un pò allo stesso modo. Allestisce quadri che tendono all’astrattismo in spazi chiusi e isolati (la palestra e l’ufficio di Julian, night-club e stanze d’albergo. Laddove in Drive, 2011, c’erano l’abitacolo dell’auto e l’ascensore e in Bronson, 2009, celle, muri e reticoli che ingabbiavano il detenuto protagonista).
Sceglie un filtro (la fotografia di Larry Smith, con le dominanti cromatiche bluastre e rosso sangue, ombre cinesi e penombra tagliente, luci dorate ed estetica fluo dei neon).
Poi, posizionata la macchina da presa in un angolo, innesca la miccia, lasciandola inesorabilmente consumare. Con carrelli e lentissimi movimenti di macchina ad azzerare ritmo e cambi di passo, mobilità e successioni narrative. Sospende e dilata le inquadrature. Ottunde e intorpidisce l’atmosfera ammantandola di una staticità quasi onirica.
Impregnando la scena con un sonoro massiccio e invadente, con ruggiti e boati metallici a fare da raccordo tra le immagini. Pulsazioni elettroniche, percussioni, stridii e sfregamenti di uno score di puro rumore insinuante (opera di Cliff Martinez come fu per Drive).
Dando così alle sequenze il tempo necessario ad emanare tutta la loro carica emotiva disturbante. Fino ad estinguersi da sole, proprio come un incenso.
È l’attacco di questa messinscena, al tempo stesso sovraccarica e prosciugata, ai sensi e alla pazienza dello spettatore il vero eccesso di violenza.
Siamo legati, inchiodati alla poltrona come alcuni personaggi del film. A subire una tortura, dolce (Julian che osserva/immagina la ragazza seduta a masturbarsi di fronte a lui) o efferata, quella del vendicatore che mutila occhi e orecchie di un criminale.
Immagini e suoni del cinema di Refn vanno assimilati in questo modo, con gli occhi sfregiati e i timpani bucati, in ansiosa attesa di uno scatto di ferocia improvvisa. Altrimenti, è meglio presenziare alle scene a occhi chiusi, come fanno le eleganti e composte signorine del club.
Che si scelga di guardarla o meno, di farsene carico come gesto d’amore e missione salvifica (Drive) o come opportunità di vendetta e riscatto (Julian), la violenza rimane un passaggio obbligato, l’attraversamento di una soglia inevitabile per i personaggi di Refn. Incombenza ineludibile dell’esistenza con cui ognuno si trova a un certo punto a dover fare i conti.
Anche quando essa non costituisce un modus vivendi, un’innata inclinazione naturale, un talento da coltivare, una vocazione schizofrenica da esplorare ed esprimere artisticamente (come accadeva per lo psicotico omicida di Bronson). Prima o dopo, volente o nolente, scontri ed efferatezze toccano (a) tutti.
Julian non può far altro che sottomettersi a questa logica, fare la sua parte dentro un universo sanguinario (il combattimento rituale e il pestaggio come sacrificio del corpo) e infine accettare l’impietosa e ancestrale legge del contrappasso (le mani mozzate).
Solo Dio perdona, tutti gli altri si inchinano alla lama dell’Angelo Vendicatore, poliziotto, guru, gran maestro d’armi e ammaliante chanteur da pianobar.
Il regista prosegue il lavoro di sottrazione sul corpo dell’attore, consegnandoci un Ryan Gosling ancor più irrigidito e inespressivo di quello visto in Drive. Volto pulito smontato a suon di lividi e percosse.
Maschera impassibile, sguardo stranito e irremovibile, mimica assente e battute col contagocce. Burattino vessato e pilotato dalla perfida madre, un’inedita Kristin Scott Thomas al fulmicotone che spacca in due il film (la sequenza al ristorante).
Se Tarantino mescola, smonta e re-incolla figure e generi, Winding Refn li squarcia e li priva di consistenza, sostanza e forma filmica. Oggetti svuotati e depotenziati, fatti girare a vuoto in una messinscena congelata.
Così, Solo Dio Perdona – Only God Forgives, sulla struttura base di un revenge movie, potrebbe diventare allo stesso modo un noir svaporato, un gangster movie mancato, un atipico melodramma familiare o un film di arti marziali con le stampelle.
È un film che predispone solo due tipi di spettatori: gli adoratori più estasiasti e i denigratori più accaniti.
O si ama, o si odia, ma senza dubbio stordisce col suo fascino magnetico.