Regia: Kim Ki Duk
Anno: 2012
Pietà è un film che lavora in sordina, mentre tornate a casa e ne discutete con qualcuno. Non andate da soli a vedere Pietà, perché questo film ha molti pregi e molti difetti, ma soprattutto ha quel qualcosa di intrinsecamente cinematografico che vi porta dapprima a immergervi dentro lo schermo durante la proiezione (e qui siete soli, voi e Pietà) e poi a ricercare quella condivisione, quel parlare del film che rende l’esperienza cinematografica un’esperienza anche collettiva.
Le suggestioni e i messaggi che questo diciottesimo film di Kim Ki Duk (Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (“봄여름가을겨울그리고봄 – Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom”), 2003; Ferro 3 – la casa vuota (“빈집 – Bin-jip”), 2004) lascia allo spettatore emergono gradualmente: similmente alla storia narrata (un uomo che lavora per degli usurai cambia vita dopo l’incontro con una donna che afferma di essere sua madre), che sembra costruirsi a poco a poco durante la proiezione, anche la riflessione su di essa si costruisce sommando vari spunti ed elementi. Non voglio affermare che il regista non sappia dove condurci, o che si lasci viceversa condurre dal film stesso: a posteriori è chiarissimo il percorso che Kim Ki Duk fa seguire ai suoi personaggi e a noi spettatori.
La ripetizione di situazioni simili – specialmente nella prima metà del film – sembra immobilizzare la storia in un circolo anziché distenderla in una progressione lineare, ma la realtà è diversa. L’insistenza sulla ripetizione (delle situazioni, delle azioni, delle parole) ha diversi scopi: fissare le basi per un cambiamento, rafforzare i concetti, creare anaforicamente un mood che serve da un canto, come accade nelle preghiere, a portare lo spettatore ad abbandonarsi nelle mani del creatore della storia, dall’altro a esplicitare la metafora nascosta dietro al film.
Pietà è infatti la metafora di una moderna preghiera.
Questo non è un film che definirei avvincente, eppure avvince: il ritmo è lento (non solo nel montaggio ma nella velocità di progressione della storia) tuttavia c’è qualcosa che ci afferra le viscere e ci tira per 110 minuti fino a legarci sotto quel furgone. Si ha l’impressione dell’assenza di una chiara traiettoria, eppure guardandovi indietro scoprirete di esservi lasciati alle spalle una scia fatta di piccoli tasselli e meccanismi ad incastro che vi hanno portati alla fine del film.
Perché bisogna ammetterlo, Pietà non è nemmeno un film “facile”, né da seguire né da digerire. Non perché vi sia troppa violenza (spesso lasciata fuori campo), ma perché il connubio tra questa violenza, la trama e il sesso è disturbante. Più che la violenza fisica, infatti, disturba la violenza psicologica delle situazioni e la violenza visiva di certi primi piani (la scena in cui la madre mastica ciò che il figlio le ordina di mangiare mette veramente a dura prova lo stomaco dello spettatore).
Personalmente ho provato una sensazione di malessere durante la visione del film, ma pian piano ho realizzato che questa era una reazione a un ambiente urbano e umano così degradato da mettere me-spettatore a disagio. La profondità dei sentimenti di questi personaggi che arrivano alla follia è così tagliente da renderli quasi stereotipati. Tuttavia anche questo non è un difetto del film: credo che Kim Ki Duk abbia voluto ritrarre “LA Madre”, non semplicemente “una madre”, con il suo amore incondizionato verso “IL figlio” (il cui nome è del resto soltanto da lei pronunciato).
E’ anche in questo che si possono leggere echi religiosi e cristologici, che già il titolo suggerisce: come a immaginare una continuazione del Vangelo dal punto di vista di Maria, ma traslandola in un altro luogo, in un altro tempo e (per non essere blasfemi) in un altro sistema di valori.
Questa operazione riesce meno quando applicata al protagonista (Lee Jeong-jin), il cui cambiamento appare troppo repentino e innaturale, pur all’interno di una lettura metaforica.
Se è lo sguardo a ritroso che chiarisce il percorso, è soprattutto il comportamento apparentemente assurdo ed irritante della donna nella prima metà del film (quella paradossalmente più statica, sebbene più ricca di accadimenti) a essere spiegato con la rivelazione finale.
L’iconografia della Pietà viene dapprima rivista, nascondendo ai nostri occhi il corpo morto in un frigorifero (strumento che conserva) – magistralmente posto al centro delle inquadrature di quella stanza – e poi simbolicamente ribaltata alla fine.
L’amore (materno) fa da catalizzatore al cambiamento e conduce, seppur attraverso un percorso di vendetta, a un’espiazione spontaneamente ricercata. Il canto finale attualizza la preghiera (“Agnus Dei, qui tollis peccata mundi…”) di avere pace (“dona nobis pacem…”) e liberare l’uomo dal male (“… miserere nobis”).
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