Oblivion

Regia: Joseph Kosinski
Anno: 2013

Nel 2077, la Terra è un’arida landa distrutta da una guerra nucleare contro invasori alieni. Gli umani hanno vinto, ma il pianeta devastato dagli scontri li ha costretti a rifugiarsi sul satellite Titano. Nel deserto di macerie resta soltanto il tecnico Jack Harper, a gestire le risorse residue e riparare i droni che combattono le ultime resistenze aliene. Ormai prossimo a raggiungere la colonia terrestre, Jack si imbatte in una donna uscita da una capsula spaziale caduta dal cielo: è la stessa ragazza che vede in alcuni strani sogni. Un mistero che incrinerà le sue certezze, portandolo a scoprire verità insospettabili.

Memoria totale o frammenti di ricordi confusi? Sogni farneticanti o vive reminescenze di un passato rimosso? Siamo davvero chi crediamo di essere, o abbiamo forse dimenticato di essere qualcuno, qualcosa d’altro?

La science fiction cinematografica degli ultimi mesi sembra riscoprire interesse per sconnessioni, buchi e interferenze della memoria, riflettendo le scissioni e i conflitti tra identità ambigue e forse irriducibili.

Accade in maniera radicale con la memoria cancellata e ripristinata, il vissuto azzerato e riconquistato in Total Recall – Atto di Forza (Len Wiseman, 2012). A suo modo, anche Prometheus (2012) di Ridley Scott pone un problema di crisi, recupero e rimodellamento di una memoria biologica e genetica, azzardando un’inquietante filogenesi della razza umana.

Perfìno la fantascienza più fiabesca e zuccherosa sceglie schemi narrativi di perdita e recupero della memoria, amori e storie di vita dimenticate e ritrovate (Upside Down, Juan Diego Solanas, 2013).

Per non parlare di Tron Legacy (2010), opera prima di Joseph Kosinski, tutta giocata sulle lotte per il possesso dei dischi di memoria dei suoi avatar intrappolati nella rete virtuale.

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Eccoci allora ad Oblivion (tratto dall’omonima graphic novel dello stesso regista), dove il protagonista Jack (Tom Cruise) subisce la completa cancellazione dei ricordi della vita pre-disastro atomico. Il lavoro è la sua unica realtà. Efficiente addetto alle manutenzioni, si scopre però lui stesso guasto e difettoso. Non riuscendo ad assemblare pezzi di sogni/ricordi, ad aggiustare le falle di memoria e sentimenti. È mosso da sincera curiosità, sente che qualcosa gli manca. Ha nostalgia di una vita che pur non riesce a rievocare.

Proprio come il Douglas Quaid di Total Recall, sogna continuamente una donna misteriosa che non è la mogliettina che trova al suo fianco ad ogni risveglio. Ma una bella sconosciuta (l’ex bond girl Olga Kurylenko) con cui guardare il futuro (o è forse un passato da rimembrare?) attraverso un binocolo panoramico. Il colpo di scena centrale sarà rivelatorio.

Permettendo al regista di esplorare un tema già presente nel film d’esordio: il confronto di un personaggio con il suo doppio, la sua copia (fasulla?). Guardare in faccia il nemico, e vederci riflesso il proprio volto come in uno specchio (in Tron Legacy era il “creativo” Kevin Flynn a scontrarsi con il suo clone digitale dal viso ringiovanito).

Scoprire se stessi nell’altro da sé, e viceversa. “Eliminare se stessi dall’equazione” diceva il programma digitale Quorra in Tron Legacy, per scoprire l’arte dell’altruismo ed abbracciare l’umano. Jack, invece, deve compiere l’azione opposta, cercando di re-includere il suo io in un sistema che l’ha eliminato.

Preludio all’ulteriore scontro finale, quello tra creatori e creati (come già Flynn e il programma CLU di Tron Legacy). Un faccia a faccia crepuscolare e funereo tra padri e figli (“And how can man die better than facing fearful odds / For the ashes of his fathers / And the temples of his Gods” recita Jack citando un passo del poema mitologico Horatius di Thomas Babington Macaulay).

Anzi, meglio parlare di madri matrigne. Con quel volto/voce femminile del contatto radio, Sally, vero deus ex machina artificiale che come il computer di bordo Mother di Alien (Ridley Scott, 1979) guida con l’inganno il viaggiatore spaziale verso l’ignoto e la morte cerebrale.

Kosinski celebra arte e cultura come valori cardine della civiltà umana. La musica è affidata alla nostalgia per vecchi vinili rockeggianti (un pò come in Warm Bodies,  Jonathan Levine, 2013). I libri, come insegna Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, sono il prezioso strumento memoriale di coscienza e conoscenza. Jack ci si appassiona (su uno scaffale spunta Le due città di Charles Dickens), così come la Quorra di Tron Legacy leggeva le opere di Jules Verne.

Trova spazio anche la pittura realista di Andrew Wyeth, con quel quadro (Christina’s World, 1948) che i due protagonisti contemplano malinconici, simbolo del desiderio di riscoprire un paesaggio umano e naturale perduto.

Film a metà fra ossessioni filosofico-introspettive e il ritmo ipercinetico di un pirotecnico action fantasy. In uno scenario post-apocalisse desertificato e naturalistico, che inabissa l’iconografia urbana americana (i resti decadenti dell’Empire State Building, il Brooklin Bridge affossato nella sabbia).

Talvolta lento, con qualche personaggio abbandonato frettolosamente (il ribelle Morgan Freeman), ma in definitiva una godibile fantascienza d’azione.