Giunge alla settima edizione un appuntamento ormai importante per la cultura cinematografica italiana e milanese: “Nuovo cinema israeliano”, la rassegna nata da un progetto di Paola Mortara e Nanette Hayon del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) ha offerto anche quest’anno al pubblico della città meneghina l’occasione di vedere sul grande schermo dello Spazio Oberdan alcune delle pellicole israeliane più significative degli ultimi anni.
Un’attenta selezione dal Pitigliani Kolno’a Festival di Roma, operata dai direttori artistici Dan Muggia e Ariela Piattelli, ci ha permesso di assistere alle proiezioni di pellicole rappresentative dei 4 anni anni di cinema israeliano compresi tra il 2009 (Lost Paradise (Michal Brezise, Oded Binnum ) e il 2012 di Birobizhdan – La musica dell’anima (Matteo Bellinelli), The garden of Eden (Ran Tal), Aya (Michal Brezise, Oded Binnum), Room 514 (Sharon Bar-Ziv) e The Gatekeepers (Dror Moreh).
In coda alla rassegna, una maratona di due giorni ha riproposto film che avevano riscontrato un particolare successo nelle precedenti edizioni, come lo straordinario For my father (Dror Zahavi, 2010) e il tenero Noodle (Ayelet Menachemi, 2009), mentre prima e dopo le proiezioni si sono tenuti dibattiti, presentazioni di libri (Nino Contini (1906-1944). Quel ragazzo in gamba di nostro padre. Diari dal confino e da Napoli liberata, a cura di Bruno e Leo Contini) e incontri con registi, critici cinematografici, docenti di letteratura e cinematografia israeliane.
Le tematiche trattate nelle opere proposte sono state le più diverse: l’amore, l’accettazione del diverso, il conflitto israelo-palestinese, la critica alla realtà politica e sociale del Paese, l’amicizia, l’arte, il viaggio.
Quella israeliana, si sa, è una cinematografia impegnata che mira, attraverso una critica sociale e politica a volte molto forte, a presentare il Paese in tutte le sue sfaccettature. Al contempo, però, essa non rinuncia al genere della commedia o al tono leggero per offrire uno guardo positivo (ma anche questo realistico) sulla realtà di Israele.
Lo spettatore della rassegna ha potuto infatti godere, ad esempio: di un documentario in cui i capi dello Shin Bet (l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele) si raccontano senza remore davanti alla macchina da presa, assumendosi la responsabilità di azioni che hanno cambiato il corso della storia del Paese (The gatekeepers); di un cortometraggio dove un ebreo religioso e una donna musulmana si amano appassionatamente in una camera d’albergo (Lost Paradise); di un’indagine del regista Arnon Goldfinger sul passato della propria famiglia, volta ad indagare i rapporti che i suoi nonni – ebrei tedeschi – hanno mantenuto anche dopo la seconda guerra mondiale con una famiglia probabilmente nazista (The flat); ma anche di un delicato film on the road dove due sconosciuti si aprono l’un l’altra sulla strada verso Gerusalemme (Aya).
È innegabile che nel cinema israeliano vi sia un realismo tangibile che sfocia spesso nell’autobiografismo. In Israele è molto gettonato il filone del documentario sulle passate generazioni delle proprie famiglie: si pensi a The Cemetery Club (Tali Shemesh, 2006) o a Souvenirs (Shahar Cohen, 2006).
Tuttavia, esso è bilanciato da invenzioni visive, registiche, tecniche che esplorano nuovi territori della comunicazione audiovisiva e persino della visionarietà. Un esempio notevole di questo è costituito dal film che ha inaugurato la rassegna: The ballad of the weeping spring (Benny Torati), un’opera difficilmente catalogabile perché attua una mescolanza delle caratteristiche proprie di vari generi, unendo comicità, dramma e persino elementi musical tratti dalla tradizione musicale mizrahi, caratterizzata dalla combinazione dello stile mediterraneo con quello dei Paesi del vicino Oriente e del Nord Africa.
La varietà della rassegna è davvero rappresentativa del cinema israeliano contemporaneo nel suo alternare documentari a film di fiction, produzioni low-budget a imprese a costi elevatissimi. Se infatti The gatekeepers è il documentario più costoso della storia di Israele (alcune delle sequenze che intercalano le interviste che costituiscono l’ossatura del film sono realizzate in animazione), Room 514 è stato girato con il solo denaro concesso al regista per “revisionare” la sceneggiatura, a riprova della grande versatilità dei registi israeliani e della loro capacità di essere creativi anche in situazioni economicamente disagevoli.