Con questa nuova uscita della rubrica L’Angolo Critico iniziamo un un lungo percorso di analisi che ha per oggetto Metropolis di Fritz Lang, che si dipanerà in più puntate, di volta in volta dedicate ad aspetti specifici del film e delle sue relazioni con il cinema a venire, a questioni di tecnica cinematografica e interpretativa, nella speranza di fornire al lettore più attento informazioni inedite e rare curiosità.
Iniziamo tentando di riassumere la complicatissima trama e fornendo alcune informazioni generali di tecnica cinematografica e interpretazione.
In un fantomatico anno 2026 (nella realtà la lavorazione del film inizia nel 1926, esattamente cento anni prima), Metropolis è uno smisurato complesso urbano retrò-futuribile, specchio fedele di un mondo distopico, scisso in due dalla disuguaglianza economica. La casta dominante, arroccata nella difesa del privilegio di classe schiaccia una moltitudine proletaria sfinita dagli stenti e dall’insostenibilità dei ritmi di un lavoro manuale di tipo schiavista.
Freder (Gustav Fröhlich, che vanta una filmografia che supera il centinaio di titoli), il figlio di Jhohann Fredersen (Alfred Peter Abel), dittatore-capitalista che domina sulla città dall’alto di una torre immensa, (Stadtkrone), si innamorerà di Maria (Brigitte Helm), dagli occhi ipnotici e chiari, di giorno maestrina elementare e di notte principale animatrice di una corrente eversiva che predica la fratellanza e la cessazione dello sfruttamento delle classi operaie ad opera dei capitalisti. Freder è il classico biondino cinematografico, appartiene cioè a quel tipo di personaggi ricorrenti che trova nella scialbezza dei colori di chioma e pelle, il sinonimo visivo di una qualche forma di instabilità del carattere o di deficienza della volontà (diversamente da quanto avviene per il tipo del biondo muscolare e solido, alla ispettore Callagan, o alla Robert Redford, o alla maniera più casereccia con cui incarnava questo tipo il forse non abbastanza compianto Giuliano Gemma, dotati di personalità solide quanto i muscoli che esibiscono e solari quanto il tipo di biondo più intenso che li contraddistingue).
Il biondino è dunque intento in giochi infantili e lascivi, circondato da fanciulle paicevolissime, evidentemente inconsapevole e irresponsabile. Maria, con il mesto seguito di una scolaresca di bimbi laceri e zozzi, figli della classe operaia schiavizzata, irrompe nel giardino idilliaco in cui il tempo del biondino trascorreva deliziosamente. Lo gela, letteralmente: «Guarda questi sono i tuoi fratelli». Lang qui piazza un controcampo altamente drammatico dei bambini ossuti, il che, secondo il gusto odierno sembrerebbe una sottolinetura di senso un po’ troppo marcata, ma che forse ai quei tempi ancora non aveva stufato.
La presa di coscienza dell’esistenza della miseria è per Freder uno shock di portata tale da spingerlo ad avventurarsi nel ventre sotterraneo di Metropolis, dove sono confinate le classi lavoratrici. Qui, per la prima volta in vita sua, vedrà con i propri occhi quanto sia inumano il prezzo che i sottoposti pagano per i privilegi della classe dominante. Si apre la visione mirabolante (soprattutto per i tempi, intendo) di un tetro neo-girone inferico in stile steam punk, una futuristica visione iper tecnologica, una epica del ferro, del carbone, della forza muscolare, e del vapore.
Lang in questo caso coglie l’occasione per una serie di veri e propri pezzi di bravura: ingabbia corpi e ambienti in strutture geometriche rigororsissime che, da sole, riescono a esprimere l’elevato grado di costrizione di queste esistenze, crea configurazioni innaturali ed eccessivamente razionalizzate degli elementi sullo schermo, simmetrie perfette e disumane che ci riportano la rigidezza di vite iper organizzate e costringenti, sfrutta con grande consapevolezza angoli di ripresa e lunghezza dei campi, creando l’immagine di una umanità-formica imprigionata tra enormi strutture di cemento e ferro, ecc.
La figura 1 è in grado di fornire un esempio interessante delle tecniche visive adottate da Lang. La banda bianca centrale, gli archi sovrastanti e le due porte a sbarre creano una serie di ripartizioni geometriche dell’inquadratura del tutto simmetriche e geometricamente perfette, di una regolarità artificiale ed eccessiva, che ci rendono l’idea di un ambiente artefatto e completamente innaturale. Anche le due schiere di operai sono ripartite geometricamente, in rettangoli perfetti, e Lang ha scelto di farli camminare in maniera assolutamente sincrona, come un unico grande corpo, che strascica un passo avvilito e quasi zombesco.
L’immagine è perfetta nel trasmetterci la rappresentazione di queste vite deprivate del proprio valore individuale, forzosamente sincronizzate e assimilate le une alle altre. Il fatto poi che eviti accuratamente di mostrarci il volto di questi sciagurati dimostra una precisa intenzione di anonimizzazione nei confronti degli operai-automi, poichè al cinema, lo sappaiamo bene, il processo di identificazione di e in un personaggio iniziano solo quando se ne mostra il volto e noi ne incontriamo lo sguardo. Le divise da lavoro scure non fanno che aggiungere un tocco di mestizia a tutta l’immagine e il fatto che siano identiche per tutti ci rafforza nella percezione della non distinguibilità di questi personaggi e dunque di queste esistenze. Lang poi irrobustisce tutta la costruzione usando come cancelli degli ascensori che portano gli operai sul posto di lavoro delle sbarre del tutto identiche a quelle di una prigione, volutamente creando un meccanismo implicativo fortissimo per lo spettatore che, vedendole, non potrà non richiamare alla mente i concetti di prigionia, gabbia, galera ecc.
Nella rappresentazione di questi uomini ridotti a macchine da lavoro, che muoiono di fatica e di incidenti, hanno fatto a dir poco storia le scene dal sapore ballettistico in cui i corpi degli operai si muovono a ritmo sincrono e meccanizzato, in simbiosi con gli ingranaggi di macchine mostruose. Uomini i cui ritmi di esistenza, sono scelti dalle macchine, i cicli della veglia e del sonno, i carichi di fatica, il regime di alimentazione e perfino i movimenti dei corpi, imprigionati come sono a quegli ingranaggi giganteschi.
L’orrore del giovane raggiunge il suo apice quando assiste per caso all’esplosione di un macchinario e alla morte cruenta dei numerosi operai addetti al suo funzionamento. I miasmi sprigionati dall’incidente, oltretutto, lo intossicano e nell’ebbrezza Freder si abbandona a una lunga allucinazione nella quale la macchina si trasforma nel Moloch, l’ancestrale divinità medio orientale cui si sacrificavano bambini, che nel suo delirio, invece, si rappresenta come una mostruosa fornace che inghiotte i corpi degli operai tra fauci fumiganti. Al di là del potere visionario dirompente per i tempi e i richiami di tipo mitologico, questa scena è un omaggio esplicito a Cabiria, il film di Pastrone del 1914, nel quale il tempio dedicato a questa terribile divinità ha una struttura del tutto simile, con una grande scalinata che guida verso la gigantesca bocca spalancata del dio.
Sconvolto da tanta brutalità il giovane Freder riferirà tutto al padre-dittatore, convinto che, nella sua qualità di leader assoluto avrà a cuore la sorte di questi paria del lavoro più brutale, e vorrà porre fine a tanta sofferenza, (perchè di solito i leader lo fanno…vero?). Fredersen invece rivelerà un cinismo a dir poco matematico, dotato di quel distacco che gli permette di valutare tutto il fatto unicamente sotto il profilo della perdita di produttività e della minaccia che il malcontento operaio potrebbe rappresentare per il potere costituito.
Si apre quindi una fase di profondo dissidio tra Fredersen e Freder, situazione di partenza per una narrazione a dir poco archetipica, proppiana, freudiana e, a detta di molti, espressionista, anche se in senso non stilisticamente marcato, forse solo tendente al teatrale.
Freder, tornato nel sottosuolo, si sostituisce all’operaio 11811, per meglio comprenderne le sofferenze e ha la possibilità di assistere a un segretissimo convito durante il quale scopre che la bella Maria, predica pubblicamente la fratellanza e la cessazione del sopruso dell’uomo sull’uomo da realizzarsi grazie all’avvento di un mediatore che avrà la capacità di comporre i divergenti interessi di casta.
Il giovane erede cade in ginocchio, ormai completamente innamorato (e ricambiato) di fronte a cotanto sermone, cui tuttavia ha assistito di nascosto anche il padre, lì giunto seguendo alcune mappe trovate nelle tasche degli operai defunti e guidato da Rotwang lo scienziato creatore delle macchine di Metropolis, unico conoscitore dei sotterranei della città. Lo scienziato in gioventù gli fu rivale in amore, contendendogli il cuore della indimenticata Hel, poi moglie del dittatore, passata a miglior vita nel mettere al mondo Freder. Al riguardo Rotwang, figura tragica e romantica, nutre segreti intenti di vendetta che ancora tiene ben nascosti.
Preoccupato per i contenuti egualitari e filantropici insiti nel discorso di Maria e intenzionato a stroncare sul nascere possibili focolai eversivi Fredersen incaricherà lo scienziato di conferire l’aspetto della intemerata fanciulla a un robot in grado di replicare le fattezze degli esseri umani, in modo da poterne pilotare le apparizioni pubbliche e la condotta, nel tentativo di gettare discredito sulla sua figura di profeta della fratellanza tra classi sociali.
Scopriamo solo successivamente che Rotwang voleva distruggere l’antico rivale e quindi aveva programmato il robot affinchè scatenasse una insurrezione violenta che portasse alla
distruzione dell’apparato macchinico-produttivo di Metropolis, dunque dell’intero suo funzionamento e conseguentemente del potere personale di Fredersen.
Lo scienziato quindi imprigiona la vera Maria e dopo averla collegata al robot grazie a un macchinario avveniristico ne replica le sembianze in una scena ricca di effetti speciali che all’epoca fecero scalpore (raggi e anelli di energia luminosi, fasci di luce saettanti, la trasformazione a vista del volto metallico del robot che attraverso una sovraimpressione si trasforma in quello umano, ecc.).
Il replicante si mette subito all’opera per distruggere l’immagine pubblica della Maria vera e per seminare discordia e malcontento sia tra i lavoratori che tra i ricchi borghesi. Ai primi, infatti, propinerà una serie di discorsi incitandoli alla sommossa violenta e alla distruzione delle macchine, ai secondi imporrà il giogo di una sensualità sfrenata, in grado di scatenare risse e contese cruente, proponendosi in una danza erotica che entrerà letteralmente nella storia, fornendo il prototipo per una infinità di scene di seduzione del cinema a venire.
I riferimenti di tipo biblico qui si sprecano, letteralmente, a cominciare dall’inevitabile richiamo alla danza di Salomè che qui viene richiamata in maniera abbastanza palese. Un complesso sistema di riferimenti simbolici, poi, pone in relazione la falsa Maria, che nel film incarna il peccato assoluto, al mito biblico di Babilonia, la grande meretrice, simbolo universale del peccato capitale della rivolta degli uomini al volere divino e del mercimonio della religione. Nel libro dell’Apocalisse Babilonia, detta anche «madre delle meretrici», è presentata in forma allegorica come una donna che cavalca una bestia (un mostro, un drago) a sette teste che qui ritroviamo raffigurato
nella scultura scenografica su cui sale la falsa Maria nel climax della danza, una sorta di blocco centrale da cui si slanciano diverse teste di drago (credo sette, ma a onor del vero non le ho mai contate) dal collo sinuoso e le fauci spalancate e che potete osservare nella figura riportata qui a fianco e, più in grande, in quella più in basso a sinistra. Anche sotto il profilo formale la costruzione langhiana presenta motivi di grande interesse, come dimostra bene anche il fotogramma a lato, in cui la condizione di dominanza psicologica che la falsa Maria-Babilonia esercita sulla moltitudine di uomini soggiogati dalla sua sensualità si concreta simbolicamente nella limpidissima costruzione piramidale di cui lei rappresenta l’apice e la selva di mani adoranti e protese degli uomini concupiscenti la base, secondo quella grammatica inconscia che nella dicotomia alto\basso include implicitamentea nche quella dominanza\sottomissione. L’illuminazione strategicamente concentrata sul corpo della donna e il contrasto cromatico tra le sue vesti candide e gli eleganti completi scuri indossati dagli uomini contribuiscono non poco a focalizzare la nostra attenzione spettatoriale su di lei.
Solo Freder, che pure inizialmente aveva creduto all’inganno sino al punto di ammalarsi per il dispiacere procuratogli dai comportamenti della nuova Maria, si accorgerà del fatto che sotto le ingannevoli sembianze del robot mutaforma non ci sono più il cuore e l’anima dell’amata: «Tu non sei Maria!» « Maria parla di pace, non di assassinio! Questa non è Maria! » grida disperato dopo averla sentita incitare la folla alla violenza.
Ma il tempo della temperanza è finito a Metropolis: la moltitudine operaia, infiammata dai discorsi della sobillatrice-androide è ormai preda del delirio rivoluzionario e distrugge ogni cosa, sino a quando, fomentata dalla falsa Maria, arriva a
far saltare anche il generatore centrale che alimenta tutti i sistemi di Metropolis, dimenticando che questo causerà la completa paralisi del sistema-città e conseguentemente l’allagamento dei sotterranei nei quali si trovano i quartieri-dormitorio, le loro stesse abitazioni, quindi, dove i figli ignari del pericolo li stanno attendendo in attesa della fine del turno lavorativo.
L’enorme massa d’acqua irrompe facendo tabula rasa di tutto, la sorte dei bimbi sembra segnata ma saranno salvati in extremis dalla vera Maria, che intanto era riuscita a fuggire dalla casa di Rotwang, e da Freder in una scena corale dal
forte impatto, mentre il replicante viene bruciato come punizione per aver condannato a morte i figli degli operai.
Intanto, quasi a sorpresa, Fredersen riscopre i sentimenti: convinto che il figlio sia perito nell’allagamento sotterraneo si dispera. Ancora di più si accora quando lo vede lottare con Rotwang (che aveva rapito Maria una seconda volta) sul tetto acuminato della cattedrale gotica di Metropolis, rischiando di cadere. e quando lo vedrà rischiare la vita lottando con Rotwang che ormai folle ha condotto Maria sul tetto della cattedrale, scambiandola per l’amatissima Hell, seguirà tutta la scena con grande trepidazione esultando per la morte dello scienziato pazzo.
«Tra la testa e le mani è il cuore che deve fare da mediatore» è questa la frase emblematica che chiude l’opera eche traduce sul piano verbale quella simbolica stretta di mano tra Fredersen (la testa) e il capo degli operai (le mani) che avviene alla presenza del grande mediatore, Freder, personaggio-simbolo di tutte quelle istanze affettive e simpatetiche che nella visione vagamente semplicistica di Thea Von Harbou (compagna di Lang, sua co-sceneggiatrice e autrice del romanzo cui il film si ispira) trovano sede nel cuore.
È chiaro a questo punto che a voler tentare di recensire in maniera sintetica quest’opera mastodontica si corre il rischio di gravi omissioni se non addirittura di distorsioni vere e proprie del significato tanto narrativo che visuale di un testo così stratificato e complesso. L’elementare lavoro di analisi che abbiamo svolto sui pochi fotogrammi riportati come esempio per i nostri lettori è bastato a far emergere l’articolato reticolo di valenze simboliche e pratiche dell’immagine non sempre palesi che Lang tesse sotto l’epidermide delle singole inquadrature, concepite ciascuna come singola opera d’arte, come quadro pittorico che, anche se considerato separatamente dal resto del film, esprime un valore artistico o estetico autonomo. Difficile anche districarsi nella selva copiosa di significazioni ulteriori, sovrainterpretazioni e classificazioni postume (e talvolta posticce) che nel corso della storia della critica cinematografica si sono progressivamente stratificate sulla pelle di Metropolis sino a incrostarla definitivamente.
Esiste una molteplicità di questioni che sarebbe necessario dipanare per avere un quadro chiaro e veritiero sulla questione Metropolis: questioni che riguardano la sua ambigua collocazione rispetto a quella temperie estetica che alcuni hanno rubricato come espressionismo tedesco, i simbologismi biblici, mitologici e occultistici che si fondono con considerazioni che riguardano più da vicino le differenti sensibilità artistiche che stanno alla base tanto del lavoro di scrittura (Thea Von Harbou e lo stesso Lang) quanto delle differenti prassi attoriali che ne ibridano il tenore complessivo, questioni più strettamente tecnico-linguistiche che permettano di comprendere meglio il valore di quelle pratiche spettacolari che hanno reso Metropolis celebre, come gli effetti speciali per lo più inediti a quei tempi, la costruzione delle scenografie che sfruttavano la tecnica particolarissima detta effetto Shuftan, di cui diremo in un prossimo articolo, l’uso futuristico della stop motion e delle sovraimpressioni, questioni di poetica individuale e semiologiche, come l’uso significativamente pregno del bianco e nero o la particolarissima dimensione spaziale che Lang crea in maniera del tutto artificiale, per fini espressivi, ecc. ecc.
Una complessità, insomma, che ci suggerisce di procedere per piccoli passi, analizzando di volta in volta singoli aspetti di una questione critica e analitica tanto complessa quanto controversa. Iniziamo dunque il nostro iter tentando di fornire al nostro lettore una collocazione di Metropolis in relazione al filone fantascientifico a venire…
…To be continued…