Regia: Peter Jackson
Anno: 2013
Il viaggio di Bilbo Baggins e dei tredici nani guidati da Thorin Scudodiquercia continua: la Montagna Solitaria si avvicina e con essa il gigantesco drago Smaug, avido custode delle ricchezze sotterranee di Erebor. Tra orchi, orsi mannari e ragni giganti, la compagnia si imbatterà anche negli elfi Tauriel e Legolas, mentre Gandalf è richiamato alla fortezza di Dol Guldur, dove un oscuro signore del male sta riprendendo vita.
La desolazione di Smaug è la gioia di tutti i fan de Lo Hobbit e delle cronache della Terra di Mezzo. Se il primo capitolo (Un Viaggio Inaspettato) si mostrava talvolta incerto, come il suo mite protagonista, sulla strada da intraprendere, tra fiabesco giocoso e marcia altisonante, risultando spesso farraginoso (chi non ricorda la prima, interminabile ora di film?), questo entusiasmante episodio centrale conferma tutta la bravura di Peter Jackson e sodali nel (ri)trattare l’epica tolkeniana in un immaginario personale, tra attenzione ai testi originari e inesauribile creatività visionaria.
Un rigoglioso corpus di luoghi e creature, un gorgo torrenziale di eventi e personaggi che letteralmente “esondano” a ritmo serratissimo, senza singhiozzi, subito e sempre al centro dell’azione, in due ore e mezzo che filano spedite.
Jackson innesta un breve prologo (ritagliandosi un fugace cameo) al villaggio di Brea, cronologicamente a monte del primo film, dove Gandalf incontra il nano Thorin al Puledro Impennato (i quattro Hobbit vi scoprivano Granpasso incappucciato in La compagnia dell’anello, “The Fellowship of the Ring“, 2001) per spingerlo alla riconquista del trono di Erebor. Poi eccoci sugli impervi pendii delle montagne (neozelandesi), con Bilbo a sorvegliare gli affamati orchi di Azog sulle sue tracce.
Struttura narrativa che reitera quella dell’apertura del capitolo centrale della saga dell’anello, Le due torri (“The Two Towers“, 2002): anche là un preambolo con protagonista Gandalf (la lotta contro il Balrog) agganciato al film precedente, prima di arrivare agli Uruk-hai seguiti a distanza da Aragorn e soci.
Sono in effetti molte le similitudini tra La desolazione di Smaug e Le due torri, entrambe terre di mezzo e di passaggio, riemerse e attraversate nella personale mappa fil(m)ologica di Peter Jackson, prima dell’approdo finale.
Così, nello stesso modo viene (ri)creata e differita l’attesa per la “creatura misteriosa” del film, prima mostrata solo attraverso gli occhi (là era Gollum, qui il drago Smaug, entrambi barbari accecati dall’avidità, asociali abitatori del buio e delle profondità). E per la relativa performance attoriale in motion capture (Andy Serkis per Smeagol, qui Benedict Cumberbatch a prestare voce e viscide movenze a Smaug, doppiato in italiano da Luca Ward).
Poi l’attraversamento insidioso del bosco magico e maledetto: la foresta di Fangorn in Le due Torri come il Bosco Atro popolato dagli aracnidi giganti (la prole del ragnaccio Shelob visto in Il ritorno del Re, “The Return of the King“, 2003). L’imboscata degli elfi silvani alla compagnia di Bilbo, tenuta sotto tiro di archi e frecce, ricorda l’immagine di Aragorn, Legolas e Gimli accerchiati e tenuti sotto scacco dalle lance dei cavalieri di Rohan.
Così come il tronfio governatore di Pontelagolungo (suggestivo e nebbioso villaggio in decadenza bagnato da un Cocito ghiacciato) e il suo viscido amministratore Alfrid richiamano l’istupidito Theoden e il velenoso manipolatore Vermilinguo.
Addirittura alcune battute paiono le stesse: quando Tauriel (la dolce e combattiva new entry, Evangeline Lilly) spinge uno scettico Legolas (“Questa non è la nostra guerra”) a soccorrere i nani, Jackson sembra riprendere di pari passo il dialogo tra Barbalbero e Merry, che rimproverava gli Ent restii a scendere in campo (“Ma fate parte di questo mondo!”).
Tutto ciò fa emergere il progetto autoriale di Peter Jackson. Arrivati al secondo tassello, possiamo dirlo. Non si tratta di semplici agganci esibiti, di citazioni al contrario, del gioco di rimandi allacciati e di incastri tra la trilogia de Lo Hobbit e quella de Il signore degli anelli.
Nella Terra di Mezzo Jackson continua a riscontrare il luogo archetipico dell’incrocio di storie ed “ere” letterarie e cinematografiche, del suo immaginario di miti e icone digitali (ricordiamo King Kong, 2005). Del loro farsi continuamente racconto, narrazione tramandata e stratificata (l’incipit di Un viaggio inaspettato, con l’accento sullo storytelling di Bilbo e Frodo, parlava proprio di questo).
Un mondo in eterno (ri)formarsi e sfaldarsi, che segue sviluppi circolari, una cosmogonia ciclica e iterata (come il nostro? come il cinema stesso?). Da una storia al suo prequel, da un’epoca/saga all’altra, da una stirpe (di spettatori) a quella successiva, c’è un male addormentato che riposa nell’ombra (Sauron, Smaug) e sempre si rigenera. Contrastato dalle forze del bene ancora una volta incarnate, inscindibilmente, nell’azione del singolo che coinvolge la sorte e il destino di tutti.
Un percorso di cui il capitolo finale (in arrivo per l’estate 2014) sarà epilogo e nuovo epigono. Su e giù per il mito e l’infinita storia da raccontare. Andata e ritorno. There…and back again.