Regia: Claude Lanzmann
Anno: 2013
Le Dernier des Injustes (L’ultimo degli ingiusti) è un film difficilissimo, che investe lo spettatore non una ma molteplici volte, che fa emergere porzioni di significato man mano che scorre il tempo, tanto quella della proiezione quanto quella della riflessione, qui uniti in un unico bacino di senso. Nei 220 minuti (alias 3 ore e quaranta) del film di Claude Lanzmann si alternano contrari semantici che manifestano una poetica in bilico fra passato e futuro, tra storia e presente, tra rabbia e lucidità, e molti altri.
La materia principe è quella di Theresienstadt, detta Terezin, “la città che Hitler donò agli ebrei” edificando la colossale menzogna propagandistica atta a dare della ghettizzazione degli ebrei prima, della deportazione nei campi poi, una rappresentazione distorta. Theresienstadt è in Le Dernier des Injustes osservata in più spazi e in più tempi: il tempo del racconto dell’ultimo suo decano Benjamin Murmelstein si fonde (generando un continuum di fratture) con il tempo dell’enunciazione della sua testimonianza (metà degli anni ’70) che a sua volta dialoga con la nostra contemporaneità (vista attraverso un Lanzmann oramai invecchiato, che nel 2013 rivisita i luoghi silenti raccontati da Murmelstein).
E così gli spazi, un incalzare di campi vuoti realizzati con finezza visiva estrema, assumono gradazioni semantiche multiple riempiti dalle parole dell’ultimo degli ingiusti (a riecheggiare L’ultimo dei giusti di André Schwarz-Bart). Immobili i muri esterni della cittadella fantoccio per gli ebrei di “categoria A” si fanno oggi spazio astratto di memoria e rielaborazione, e Lanzmann media fra essi e lo spettatore con la sua presenza fisica a sancire, come a scolpire su quei mattoni muti, gli avvenimenti che si susseguirono dalla costruzione dell’impossibile Terezin alla sua progressiva rivelazione per quello che era: uno dei prototipi ideali di prova, forse il più vistosamente menzognero, per la soluzione finale.
Storie orribili raccontate razionalmente ma con stoica autoironia da Murlmelstein (la cui intervista occupa i tre quarti del mastodontico film) si intrecciano e danno colore al passato in bianco e nero della Shoah; storie di impiccagioni sommarie a titolo d’avvertimento per chi avesse tentato di trasgredire alle regole naziste si fondono con storie complesse di poteri instabili e in perenne conflitto con la loro natura. E dunque il taglio narrativo e quello documentario, già intrisi di fortissime valenze estetiche, convergono con una prospettiva filosofica che polemizza direttamente con La banalità del male di H.Arendt proponendo, citazione testuale, una diversa “interpretazione dei fatti” circa i comportamenti delle SS a partire da quelli dell’obbligato socio di Murlmestein: il nazista Otto Adolf Eichmann.
Un complicato gioco di montaggio gestisce con equilibrio il susseguirsi di primi piani dell’ultimo decano o del regista con la loro voce fuori campo a sovrastare una muta Vienna, un dimenticato Madagascar (che Hitler e i suoi avevano inizialmente concepito come “riserva” per gli ebrei, salvo poi decidere che potesse essere più utile come forma in codice per: “mandateli ai campi”), e posti certamente meno noti, ma fondamentali per la riuscita del gigantesco progetto nazista di eliminazione degli ebrei: le stazioni.
Così come nell’infinito Shoah (1985, durata 613 minuti, più di 10 ore) la dimensione del treno assume caratteri storico-esistenzialistici massivi, allo stesso modo in Le Dernier des Injustes compaiono fin dall’inizio immagini di binari e ferrovie, come quella di Nisko, che si configurano come testimoni imperituri e indifesi di quel che rappresentò il nazismo. La dimensione del trasporto assume connotazioni che a Lanzmann non sfuggono, ed anzi sulle quali indugia con perizia e senso poetico, sempre in tensione fra ciò che avvenne ieri e ciò che è oggi, aprendo il film proprio con una lettura in una stazione, mentre imperturbabili i treni passano a disturbare la declamazione. E giustamente in questo momento iniziale egli pronuncia le parole: “Non si può fermare il traffico”.
È il traffico dei deportati quello a cui si riferisce con insofferenza: quel traffico che grazie anche (e forse soprattutto) alla sperimentazione nazista di Theresienstadt divenne inarrestabile.
Impossibile dunque recensire in toto le sfaccettature di un film come Le Dernier des Injustes poiché esso rappresenta un panta rei filmico senza fine, così nella sua forma polidimensionale e volutamente circolare, come nei suoi contenuti che si stratificano ogni qualvolta si tenta di leggerli. Dal punto di vista storico rappresenta infine un esercizio di testimonianza e di memoria eccezionale che naturalmente merita un’attenzione peculiare giacché va inserito in un contesto specifico e assolutamente messo in discussione (così come certamente farebbe il regista).
Ci vuole coraggio per vedere Le Dernier des Injustes: non tanto per la sua durata atipicamente abnorme (meno della metà rispetto a Shoah), ma per il coraggio stesso che egli trova nel raccontarci con fierezza (e mai morbosità) le vicende di Theresienstadt, facendo risuonare in chi guarda, come nell’esercizio di un monito eterno, le parole di Primo Levi: “meditate che questo è stato”.