Regia: Sébastien Pilote
Anno: 2013
Allevare pecore in campagna tenendosi al riparo dal rumore del “gregge” cittadino. Allattare agnellini spaventati senza poter abbracciare figlie lontane, una moglie perduta, due fratelli assenti. È la vita quieta e faticosa del mite Gaby, sessantatrè anni trascorsi a sgobbare duramente nella fattoria di famiglia che ora, per aiutare la figlia maggiore in difficoltà economiche, si trova costretto a vendere.
Al Torino Film Festival 2013 si rivede il canadese Sébastien Pilote, in concorso nella sezione Torino 31 con il drammatico Le démantèlement, dopo l’attenzione suscitata nell’edizione 2011 con Le vendeur.
Démantèlement, ovvero, per i non francofoni, smantellamento. (Auto)espropriazione di beni e terreni ma anche di vita, dignità e affetti. Dispersione di rapporti familiari e valori ormai decaduti, tristemente anacronistici. “Dicevi sempre che una fattoria non si vende, si tramanda” dice l’ex moglie a Gaby. Ora, da una generazione all’altra si trasmette soltanto distacco, un vuoto incolmabile. L’eredità (ammesso che ce ne sia una) non è tesoro da custodire ma tributo da riscattare. Tra le mani di padri e figli passano solo soldi, incomprensioni e inutili regali.
A Gaby non resta che arrendersi, testardamente solo fra campagne disabitate e città ridotte a buchi di cemento che puzzano alacremente “di chiuso”.
Qui tutto si vende e si arraffa come a una fiera agricola dove si batte l’offerta più alta. Un’eutanasia canina a venticinque dollari e l’amore per una figlia a cui si paga pegno (s)vendendo una vita di passione e duri sacrifici. Gettando alle ortiche il proprio vissuto perché qualcuno possa sentirsi di nuovo “a casa”.
Il regista spiega come abbia voluto che Gaby “incontrasse le persone a lui vicine in successione, mai insieme, per mostrare come sia in un certo senso un personaggio a pezzi, smantellato”. Incontri sporadici e facce incrociate a singhiozzi, trovandosi recluso in un appartamento-ospizio dopo essersi annullato anima e corpo a lavorare la sua amata terra (di nessuno). Impossibile riunirsi a tavola tutti insieme (Gaby caccerà i fratelli a male parole), poiché, come spiega la figlia Marie parlando della sorella, “viviamo [tutti] nella stessa città, ma non nello stesso mondo”. Tutti al tempo stesso pecore nere e lupi solitari.
Pilote continua a ritrarre la solitudine immota di personaggi votati, sacrificati ad un’unica causa: se l’arrivista venditore d’auto sul viale del tramonto di Le vendeur si perdeva nel lavoro abbracciandolo fino all’ossessione, Gaby lo abbandona finendo esiliato da se stesso, rinunciando alla sua (unica) identità come l’ultimo gesto d’amore e vicinanza ancora possibile.
Uno smantellamento dell’anima in due capitoli (titolati con i nomi delle due figlie di Gaby, Marie e Frédérique), che iniziano sullo sfondo di altrettanti tramonti rossastri. Un amaro crepuscolo sulla solidità familiare e sulla solidarietà generosa, bonaria e genuina del mondo rurale (di cui resta traccia solo nel vivace Louis, amico di Gaby).
Pur con qualche lungaggine e alcuni schematismi di troppo (il contrasto tra vecchi tempi e modernità limitato all’opposizione manualità artigianale/tecnologie digitali), è un film che si (e ci) incolla al volto malinconico e screpolato di un protagonista sincero, determinato ma inevitabilmente perdente.