Regia: Abdellatif Kechiche
Anno: 2013
Adele vive una quieta adolescenza distante dalle amiche, lontana dai ragazzi che la corteggiano. Rapita dall’incrocio di sguardi con una sconosciuta dai capelli blu. Quando finalmente la incontra, abbraccerà la vita seguendo il corso di una passione ineluttabile.
“[…] Non c’è amore all’infuori di quello che si realizza, […] non c’è genio all’infuori di quello che si esprime in opere d’arte. […] Un uomo si impegna nella propria vita, disegna il proprio volto e, fuori di questo volto, non c’è niente.”
“[…] si è mai rimproverato a un artista che fa un quadro di non ispirarsi a regole stabilite a priori? Gli si è mai detto il quadro che deve fare? È chiaro che non c’è un quadro determinato da fare […] è chiaro che non ci sono valori estetici a priori, ma che ci sono valori che si colgono in seguito, nell’armonia del quadro, nei rapporti che ci sono tra la volontà creatrice e il risultato. […] L’arte e la morale hanno in comune la creazione e l’invenzione. Non possiamo decidere a priori su ciò che si deve fare” (Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, 1945)
Si può paragonare l’esistenzialismo di Sartre al ritornello reggae di “Get Up, Stand Up” di Bob Marley, sdraiati sull’erba o su una panchina a discutere della libertà di (re)inventare continuamente se stessi, come in un’opera d’arte, senza regole e imposizioni superiori?
Si possono incrociare i giochi amorosi del teatro di maschere del romanziere Marivaux alle tribolazioni di un’adolescente qualunque, stretta fra pericolose liaisons e baci rubati sulle scale della scuola? O battibeccare sull’arte di Klimt e Schiele gustando dei succosi spaghetti fatti in casa? Sta tutta qui, in questi curiosi rimbalzi tra cultura, illustri pilastri del pensiero e schietta concretezza minimale, tra profondità di analisi e mirabile leggerezza di tocco, la forza penetrante di un’opera come La vita di Adele (“La Vie d’Adèle”) di Abdellatif Kechiche, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes.
Film di cui si sono inutilmente discusse le spinte scene di sesso tra donne. Meglio invece riflettere sul discorso amoroso, filosofico e artistico che il regista sviluppa nella narrazione e nella morbidezza sinuosa dei suoi “nudi su schermo”. Corpi aggrovigliati che non sono né quelli nodosi, scavati, emaciati, affannosamente impotenti di Egon Schiele, l’artista preferito di Emma (Léa Seydoux), capelli blu come nell’Autoritratto con le mani sul petto (1910). Né quelli decorativi e bidimensionali di Klimt. Niente reificazione museale del corpo femminile (che invece si trova nelle sculture ammirate da Emma ed Adele). Il regista evita di scolpire e dare forme compiute (alle figure, alla storia), lasciando fluire, scorrere il tratto e i desideri.
Kechiche non studia con occhio voyeuristico, cercando un’ostentata esibizione provocatoria. Sembra piuttosto guardare alla prospettiva del poeta Francis Ponge (si cita il componimento Dell’acqua tratto dalla raccolta Il partito preso delle cose, 1942, ma anche le ostriche di cui Emma è golosa sono un chiaro riferimento a Ponge).
A quell’ “allegria materialista” posata su cose e oggetti naturali per (ri)scoprirli come la prima volta. Con innocenza e ingenuità stupita. Uno sguardo vergine, “rinnovato e rinnovante”, che torni alla purezza delle radici, resistente alle costrizioni riduttive del linguaggio, del concetto, dell’astrazione.
Sguardo che Kechiche adagia sulle protagoniste, quasi a dire, scomodando Sartre, che non esiste un’essenza assoluta e immutabile (dell’individuo, dell’amore, del sesso), ma solo una sua esistenza concreta, singola, libera, fantasiosa e irriducibile.
Il tutto dentro una messinscena ellittica, spiazzante, eppure calma e introspettiva, libera dal pudore di freni inibitori di maniera, che Kechiche invita a interpretare nel modo giusto. Come il professore con quei passi letterari fatti ripetere a voce alta agli studenti della classe di Adele. Lei stessa, maestra d’asilo, inviterà i piccoli allievi a prestare attenzione alla scrittura, e quindi, per estensione, a parole e frammenti del “dettato” cinematografico.
Non è descritta tanto la critica a una realtà bigotta, omofoba e oppressiva, sempre dietro l’angolo ma che man mano svicola dal racconto (qui, la violenza verbale delle compagne di Adele, che ripropone quell’“oralità aggressiva dei ragazzi, forse maschera di fragilità” (Morandini), marchio del regista fin da La schivata, “L’Esquivé”, 2005).
Dall’universo della protagonista spariscono scuola, contesto sociale, amici. Tutto resta fuori campo, ininfluente. Anche la famiglia, nucleo marginale, per nulla decisivo: né rifugio sicuro, né minaccia ostile. Semplicemente assente dallo “sfondo” di un quadro costruito unicamente sulla verità immanente e sull’eloquenza di due corpi che si esplorano, si respirano e si assaggiano. Sia quando uniti in un intreccio di torrido erotismo, sia nel momento del distacco e dell’abbandono.
Il gioco del caso e dell’amore. Nascita, apoteosi e fine di una storia irripetibile. Tutto passa attraverso il volto espressivo della protagonista (lo stile abituale di Kechiche: riprese in spalla sempre addosso ai personaggi, con primi e primissimi piani).
Tutto sprizza dalle labbra irresistibili e dalla mimica di Adele, sgorgando sullo schermo insieme alle sue lacrime mai trattenute. Per il (rim)pianto di un’anima in p(i)ena, che non sa se prova “qualcosa in più, o qualcosa in meno” (La vita di Marianna, Marivaux) nello sguardo e nel brivido dell’innamoramento. Anche la crescita, i cambiamenti, i riti di passaggio si inscrivono sul viso, vero “quadro” catalizzatore.
L’amore è un (auto)ritratto cangiante, sempre abbozzato, in divenire, mai veramente realizzato (come il disegno che Emma le dedica, come il romanzo incompiuto di Marivaux). Mobile e inevitabilmente sfuggente, che scappa tra le dita come l’acqua descritta da Ponge: “mi sfugge eppure mi segna, senza che le possa fare un gran che […] mi sfugge, sfugge a ogni definizione, ma lascia nella mia mente e su questa carta tracce, macchie informi.”
È questa la vita di Adele, e di chiunque cerchi invano di afferrare e ingabbiare l’intensità di una passione.