Regia: Raya Martin, Mark Peterson
Anno: 2013
Ordito narrativo ridotto all’osso per questo film di Raya Martin e Mark Peterson, che segue le vicende della realizzazione dell’ultimo film della storia. Siamo infatti alla vigilia della fine del mondo pronosticata dai Maya e i nostri protagonisti (oltre al video maker c’è la guida messicana che lo accompagna) iniziano una peregrinazione surreale attraverso uno Yucatan contemporaneo ma intriso di ritualità ancestrali, tra antiche piramidi Maya, gruppi di neo-hippie e personaggi eccentrici.
In cerca di locations per questo ultimo film arrivano sino alle rovine di un monumentale complesso archeleogico , incontrando gente, visitando paesaggi e cittadine, ma soprattutto parlando di cinema attraverso la bocca del giovane regista che chiacchiera all’infinito di teorie del film, di funzioni del montaggio, del cinema come pratica distruttiva ed eternizzante, dell’apocalissi del mondo e del cinema come apocalissi, secondo una declinazione moltiplicatoria e vanificante della parola dal sentore Kieślowskiano, che ci obbliga a riflettere sulla impossibilità sopraggiunta di teorizzare altro (o nuovo) cinema, e sul senso immanente dell’agire artistico-filmico.
La trama procede per strappi e lacerti, adottando una veste formale falsamente documentaristica e allontanando in maniera consapevole quel tipo di fruitori che nel film cercano l’appagamento narrativo e la storia come valore assoluto, scegliendo semmai di avanzare più per accumulo di eventi che non disegnando una linea evolutiva di accadimenti ordinata e consequenziale. Una trama volutamente lacunaria, che sembra risolversi più che altro in un semplice pretesto, un Mac Guffin avrebbe detto Hitchcock, che Martin e Peterson si creano a bella posta per poter realizzare il loro vero film.
Questo è un testo metalinguistico, una riflessione critico-filosofica sul cinema, che rimugina su temi volutamente enormi, che nella loro esagerata pretenziosità intellettualistico-teorica si auto-ridicolizzano; ecco che allora negli 88 min. di questo film si pontifica, letteralmente, sulle pratiche del linguaggio cinematografico e sul valore dell’opera d’arte in relazione alle categorie del tempo e del giudizio dei posteri, si sprecano parole per descrivere la dimensione metafisica ed etica della settima arte ed esporre farraginose teorie linguistiche del cinema e chi più ne ha più ne metta.
E’una sotterranea tensione critico-teorica, che si esprime sia in maniera esplicita e verbalizzata, nel tappeto di elucubrazioni intellettualistiche del regista, sia in modalità nascosta, infiltrandosi nel testo grazie a una prassi stilistica e linguistica che continuamente sabota l’immedesimazione e l’identificazione dello spettatore, disturbandolo, distraendolo, rivelando il dispositivo tecnico nascosto sotto la credibilità favolistica del film.
La visione diventa quindi un vero e proprio percorso a ostacoli, in cui la croyance, l’ innata propensione voler credere alla finzione drammatica di chi la guarda, viene continuamente sabotata da errori volutissimi e disturbi della visione.
Ecco che allora i fotogrammi si deteriorano continuamente, di graffi e macchie, i colori si sbiadiscono, i microfonisti entrano in campo, così come i vari ciack, le scene sbagliate e le discussioni tra regista e attori. Dall’interno del film, allora, emerge una rappresentazione parodica, oltre che metalinguistica, di quelli parti di film che lo spettatore non vede nel prodotto finito ma che ne sono parte costitutiva nella stessa misura, le pratiche e della vita di set da cui, ironicamente, si scrosta via quella patina rugginosa di seriosità, di quasi-sacralità che acquistano nella ordinaria percezione sociale.
E proprio l’ironia costituisce la chiave di volta per questo testo che altrimenti verrebbe letteralmente schiacciato dal peso dei contenuti. Martin e Peterson sanno costruire una struttura drammaturgica omeostatica, in cui la propensione intellettualistica del benestante regista, che da sola dirotterebbe l’opera verso i lidi di una pesantezza infinita, viene continuamente bilanciata dall’ironia vagamente grottesca del suo compañero yucateco, più avvezzo a un buon senso pragmatico e materialista, che fiorisce tra quelle genti che l’indigenza economica ha temprato ed educato. Si è riso parecchio in sala quando il film è stato interrotto da un cartello realizzato in maniera abbastanza artigianale che recava la scritta scene missing, per segnalare un buco nella realizzazione del film, così come per i vaneggiamenti filosofico artistici del regista e per le reazioni serafiche della guida.
Il dispositivo nel suo complesso resta schizzofrenico e diseguale, composto di spezzoni girati in formati e con tipi di pellicola diversi, che hanno rese cromatiche piuttosto differenti, diversi gradi granulosità dell’immagine e della resa di profondità, il montaggio si vuole destrutturato e amatoriale, mal suturato come la scala dei piani. Tutta l’esperienza di visione risente di una sorta di diffusa turbativa che però non arriva mai sino al punto di inimicarsi lo spettatore, alleggerita come la troviamo da un uso ironico e solo falsamene intelletualistico. Bellissimi i monocromi rossi in chiusura.
Un film che riflette e fa riflettere… sul cinema.