La Muerte de un Burocrata è un film Comunista. Ed è Bellissimo.
Per poterlo comprendere a pieno non è necessario conoscere le dinamiche giuridiche che compromisero il futuro degli operai e lavoratori cubani dall’inizio della rivoluzione; così come non si ha bisogno di lavorare sulla storicità a discapito del piacere puramente cinematografico.
Tutt’altro, si deve solo essere amanti delle dinamiche di rappresentazione che hanno caratterizzato la tecnica cinematografica dalla nascita del cinema fino al 1966 (data d’uscita del film), e permettere all’opera che si osserva di scaturire dentro di noi intuizioni che permettano il completo distacco dagli avvenimenti che si sta osservando. Alcuni lo chiamerebbero straniamento, ma per non scomodare Bertolt Brecht mi limiterò a definirla Grottesca Comicità.
Un operaio modello muore sul lavoro e sua moglie inizia le pratiche per ottenere la pensione. Ha però bisogno della tessera sindacale del marito che è rimasta nelle tasche del defunto e quindi nella tomba. Da qui, iniziano le vicissitudini del nipote, a cui la donna ha chiesto aiuto per dribblare le avversità burocratiche. Da uno sportello all’altro, da ministeri ad uffici, da principali a direttori il lavoro del semplice nipote diventa impervio fino ai limiti dell’assurdo.
Questa volta vorrei iniziare dalla fine.
Dalla parte finale dell’opera, dalla morte, dalle insicurezze; dal crollo delle sintonie, della tranquillità. Dall’originaria idea di un’autore che trasforma il suo paese natio, Cuba, in un’Italia del dopo-guerra (da qui si nota l’influenza del Centro Sperimentale di Cinematografia che frequentò ai primi anni del ’60), fino all’utopica idea di un mondo che può benissimo fare a meno della burocrazia.
Certo, potrebbe essere così a tutti gli effetti, non fosse per un personaggio che a noi tutti accomuna, come quello de el sobrino, limitato idiota dagli atteggiamenti ironico-performativi anni ’30, che spesso e volentieri si caccia in problematiche dalle quali, grazie alla regia, può uscirne solo il slapstick comedy. Ciò non toglie che il nostro eroe alla fine del lungometraggio riesca nella sua impresa, nella nostra impresa, nell’impresa di una famiglia, di una classe, dell’intero proletariato. Siamo contenti, entusiasti, fieri, ma allo stesso tempo schiacciati da questo ansioso girovagare senza meta come fosse un peccatore in cerca del girone infernale più adatto al suo trascorso.
Come se non bastasse il regista pone indirettamente in evidenza un aspetto che spesso e volentieri viene tralasciato da ogni nostalgico cineasta rivoluzionario: la ricostruzione. Al termine di una sommossa politica e al principio di una riorganizzazione burocratico-sociale, è molto probabile che tutto (anche se non sembra) vada per il peggio. L’animo è forte ma il corpo è debole. Dal Proletkult Sovietico alla Pianificazione per una Nuova Cultura della Repubblica Cubana (a proposito: Cuba è il secondo paese al mondo nell’indice di alfabetizzazione), poiché siamo esseri pensanti, facciamo il meglio per noi stessi e per la comunità.
Gutierrez inizia con ringraziamenti (quasi come la sua fosse una Tesi di Laurea) e finisce con una polemica. Inizia memorando ad una lapide e termina abominando il campo santo.
La battuta migliore se la gioca un uomo dagli occhi a mandorla nelle battute finali del film.
Un sorriso amaro accompagnato da un clic, tanti ricordi ed un solo pensiero:
Proletari di tutto il Mondo Unitevi.