Jumanji – Benvenuti nella giungla

Regia: Jake Kasdan

Anno: 2018 

JumanjiBenvenuti nella giungla è uno di quei blockbuster derivativi così infarciti di spunti e ibridazioni da porsi al fuori delle etichette (remake? sequel? reboot?). Oltre il predecessore, il film di Jake Kasdan può essere diverse cose: un Breakfast Club aggiornato all’era videoludica, un Avatar incistato alle sinapsi del coming of age, un Freaky Friday della giungla sull’addomesticare corpi estranei e pulsioni acerbe. Ma innanzitutto resta un gioco da srotolare sullo schermo ed espandere in tutta la sua potenza lussurreggiante, al rullo dei tamburi ancestrali e sul terremoto di un rinoceronte in corsa.

Da vecchie pedine e dadi a console e cartuccione Nintendo, Jumanji allestisce un open world che promette l’immersività più totale al prezzo del completo sganciamento da se stessi, (s)materializzando il superamento dell’impasse adolescenziale attraverso funzioni e livelli di un role play che obbliga all’esercizio di mosse inedite e strumenti non in dotazione, nell’high school sempre al lavoro sulla rigida selezione delle specie (il nerd timido e impacciato, il possente giocatore di football, la rossa introversa e repressa, la blonde bitch regina dei selfie).

Parliamo di fare a pugni e spintoni, aggiustare la mira per la minzione (“È una regola”) con un membro sconosciuto, imparare a flirtare e pennellare con la lingua. Prove muscolari e goliardiche a cui giovano le performance devianti di Dwayne Johnson e Jack Black al ribasso di dignità (già abbracciato l’uno in Pain & Gain, l’altro in Tropic Thunder). In uno straniamento incrociato di improbabili corpi desideranti e desiderati che accarezza accoppiamenti fantasiosi e appena un po’ perversi. Più dell’inseguimento alla pietra verde, è questo che diverte e invita allo sgomitare complice col vicino, e al diavolo alcune contraddizioni – Marta e Fridge salvano la situazione con abilità inscritte nei personaggi virtuali, non evolvendosi come individui – e la moraletta sul donarsi all’altro col sacrificio estremo pur in deficit di “vite”.

Non inganni, poi, il pilota aviatore intrappolato nell’eterno loop della nostalgia generazionale, per cui gli anni Novanta sono sempre roba dell’altro ieri, mica affare di (più di) vent’anni fa. I tempi sono cambiati, e si vede.

Se l’antica scatola di legno intagliato, nell’immediato fermento del post Jurassic Park, schiudeva un portale per la tracimazione roboante della fauna selvaggia in CGI nella provincia americana e nella confezione del film per ragazzi, il Jumanji dell’età social si gioca su un deserto del reale – e del racconto hollywoodiano – drasticamente privo di stimoli e vita interattiva, un PNG del quotidiano apparentemente immodificabile, che ingabbia le identità teen in profili-default irrobustiti soltanto dopo una movimentata sessione di palestra didattica videoludica. “Non faccio altro, è quello che so fare meglio”, ammette il protagonista. Dunque: Welcome to the jungle, we got fun & games.