Nuri Ceylan è uno dei registi più premiati del Festival di Cannes dell’ultimo decennio. Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria nel 2003 con il film Uzak, vincitore del premio per la Miglior Regia cinque anni dopo per il lungometraggio Üç maymun (2008; Le tre Scimmie) e nuovamente il Gran Prix tre anni dopo per Bir zamanlar Anadolu’da (2011; C’era una volta in Anatolia). Al già ricco ed invidiabile palmarès mancava solo il premio più ambito che prontamente gli venne assegnato al termine dell’ultima edizione (2014, la 67°) per l’inamovibile ed all’unanime stimato (il) Regno d’Inverno.
Aydin, un ex attore, gestisce un piccolo albergo nel centro dell’Anatolia con la giovane moglie Nihal, con la quale ha un rapporto burrascoso, e sua sorella Necla che soffre del suo recente divorzio. In inverno la neve comincia a cadere, l’hotel si trasforma in un rifugio, ma anche un luogo ineludibile che alimenta le loro animosità.
Il settimo lungometraggio del regista di Istanbul, uscito negli schermi italiani il 9 ottobre (una settimana alla scrittura dell’articolo), non stupisce abbia guadagnato nel primo fine settimana poco più di 110.000 euro d’incassi. Ad influire le scelte di un pubblico da fine settimana è stata, oltre alla maestosità di un film che lavora di dialoghi e filosofia dell’abbandono, anche una durata ormai diventata proibitiva a ritmi che rasentano un post-moderno futurismo.
L’affinato lavoro di dilatazione permane lungo tutto il corso della narrazione. Quest’ultima accompagnata da dibattiti sulla morale e sulla religione da parte di una comunità familiare che di religioso ed umano ha ben poco. Se è vero che l’uomo in quanto tale affinché possa sopravvivere necessita di relazioni sociali e riscontri affettivi, ci si aspetterebbe dal protagonista Aydin (interpretato da uno strepitoso Haluk Bilginer), un seppur minimo riscontro alla solitudine che imperversa nella casa.
Il personaggio si aggira infreddolito per le bianche campagne della Cappadocia; per i lunghi corridoi dell’albergo del quale, assieme alla sorella, è proprietario; fra le linee dei brevi articoletti e saggi di filosofia che settimanalmente pubblica sulla rivista locale; annientando con arroganza e verbale insolenza qualsiasi opinione provenga dalle persone che, in quanto a lui più vicine, dovrebbero conoscerlo meglio.
Ma nell’opera di Ceylan nessuno è innocente. E la vera personalità dei familiari si deteriora velocemente, come una forte nevicata può logorare qualsiasi tentativo di sbocciatura di un fiore.
Con un utilizzo immobile della macchina da presa e chirurgici campo contro campo, il tempo si blocca e si assiste a profonde osservazioni su quello che siamo veramente, sulla fragilità dei nostri animi, sull’imbarazzo inconsapevolmente arrecato, sulla brutalità che possono assumere le nostre migliori intenzioni. Il sasso lanciato dal bambino in una delle prime sequenze iniziali, è un monito alla violenza presente in un mondo nel quale nessuno ha più intenzione di rimanere, ma dal quale, nonostante lodevoli ripromesse, non si riesce a evadere. L’albergo è solo una piccola ampolla di vetro dove ormai nessuno, seppur la raffinatezza del luogo sia straordinaria, è capace di provare calore.
Un tour de force d’altri tempi. Destinato ad un pubblico d’ascoltatori. Strepitoso.