Trent’anni dopo il ritiro dalla boxe, l’ex campione dei medio-massimi Razor Sharp torna sul ring per fronteggiare l’antico rivale Kid McDonnell, a cui negò l’incontro decisivo per uno sgarbo personale. Mentre il passato si riaffaccia nelle loro vite, tutti si preparano al grande match.
“Una rivalità che dura da 30 anni…Stallone vs De Niro” recita la tagline sulle locandine, pompando un final encounter cinematografico tra due “pesi massimi” di Hollywood e accendendo una competizione che non c’è davvero mai stata (troppo diverse, le categorie). “Grudgement Day” è pubblicizzato il grande, attesissimo match tra Henry “Razor” Sharp e Billy “The Kid” McDonnell (loro sì, hanno incrociato più volte i guantoni), con un azzeccato gioco di parole.
Se non è il giorno del giudizio (definitivo), è sicuramente una buona occasione per tastare/testare polso, muscoli, forma e intenzioni di due mostri sacri del cinema mondiale. Proprio come i pugili messi sulla bilancia e pesati in pubblico prima del grande incontro. Il gioco di ruoli sovrapposti si rafforza con gli inscindibili legami Stallone-Rocky (1976-2006) e De Niro-Jake LaMotta (Toro Scatenato, “Raging Bull”, 1980, di Martin Scorsese), icone pugilistiche per eccellenza.
Dopo aver urlato “Non fa male, non fa male!” e “Sono il più forte, il più forte!” (per noi italiani, entrambi con la mitica voce di Ferruccio Amendola), eccoli ora a lamentarsi dei dolori alla schiena e alle ginocchia. Imbolsiti nel fisico (LaMotta, a dire il vero, finiva disfatto già trent’anni fa) e frustrati e rancorosi nell’animo (Razor perse una donna, Kid l’occasione di una vita). Combattenti in pensione, o in aspettativa (di un nuovo incontro).
Nel frattempo, Razor lavora in fabbrica, si diletta con piccole sculture ricavate da materiali di scarto (proprio non ce lo vediamo), senza Tv in salotto. Kid ha aperto un bar, rivende auto, ingolla whisky e intrattiene i clienti ai tavoli con mini-show e numeri da becero stand-up comedian.
Coppia costretta a riunirsi in nome dell’orgoglio e dell’audience. I due che stonano penosamente l’inno nazionale in pubblico, la gara in volo con il paracadute e la rissa a colpi di laptop in tuta verdognola per il motion capture (“Sembri Buzz Lightyear con la passera”, dice il manager a Sly) valgono da sole il prezzo del biglietto.
Nell’arena di oggi gli idoli muscolari di carne, sangue e sudore sono in via di conversione digitale. La sola opportunità rimasta al declino del corpo sembra la trasformazione in avatar computerizzati di fronte al green screen, come personaggi di un videogioco o promotori di commercial televisivi ad alto tasso di trigliceridi.
Non possono mancare le scene di allenamento e preparazione al match. La sagoma scura in controluce di Razor che corre in lontananza sotto il ponte di Pittsburgh è un pò la stessa di Rocky nei sobborghi di Philadelphia, anche se in sottofondo non c’è l’epica partitura di Bill Conti ma “One More Shot” dei Rolling Stones. E al posto della celebre scalinata, il percorso termina sui gradini di casa, dove ad aspettarlo non trova Adriana ma la vecchia fiamma Sally (Kim Basinger, sempre bellissima).
Irresistibile coach Alan Arkin (vero mattatore del film). Mezzo sordo, insistentemente in cerca di “passera” (parola evidentemente cara agli sceneggiatori), in attesa di comprarsi un televisore per seguire “Ballando con le stelle”, tallona Razor in carrozzina mobile e dispensa ordini, esercizi (anche le mani nell’urina di cavallo per indurire i pugni!) e sconcezze assortite, scandalizzando le signorine del pilates a bordo piscina.
Anche grazie ai caratteristi come il brioso Kevin Hart, occhi strabuzzanti e parlantina inarrestabile alla Chris Rock, in attesa del main event i toni sono quelli della commedia casinara, venata di retrogusto amaro.
Mettersi in gioco e prendersi in giro, prima di prendersi a pugni un’ultima volta. Con più umorismo che retorica della nostalgia, i grandi vecchi non fanno gli spacconi come un tempo, ma rivendicano il proprio posto, a sessanta e più anni, è il caso di dirlo, “suonati”. Mai alle corde sul ring e nella vita, mandando più di una volta al tappeto una gioventù arrogante e irrispettosa.
Il Grande Match è anche (meta)riflessione sulle strategie promozionali: la campagna di lancio “del” film e la promozione dell’evento “nel” film vengono a sovrapporsi. Le conferenze stampa sono deserte. Al grande pubblico basta un solido product placement attoriale (Stallone vs De Niro) riconoscibile. Creato e condiviso online dagli utenti con le registrazioni via smartphone.
Un passaparola virale di visualizzazioni YouTube e saturazione sui social network. “Sta diventando un virale. Sai che significa virale?” chiede il manager ai pugili. Ovviamente non lo sanno. Niente buzz o guerriglia marketing per loro, ma in compenso, come dice il commentatore a bordo ring, sul quadrato scatenano guerra vera.
Imperdibile la scena dopo i titoli di coda con cameo di Tyson e Holyfield.