Se la tematica del viaggio è una costante nel film, anche la colonna sonora di I Love Radio Rock la mantiene nella sua organizzazione. E lo fa mediante una tracklist decisamente consistente (circa 50 brani originali), un budget milionario (l’Universal è sicuramente la massima finanziatrice del progetto, considerando gli alti costi derivanti dalla tassa sul copyright) e la volontà di percorrere parallelamente un tragitto discografico lungo i molteplici binari delle sue influenze: Motown Sound, British Invasion, Brit Pop, Rock ‘n Roll, Southern e Northern Soul.
I love Radio Rock si costruisce e struttura quindi per raccolta e trasversalità di omaggi musicali oltre a svilupparsi come un primordiale zapping tra frequenze radiofoniche senza che la trama ne venga destabilizzata (anche perché, di trama priva di musica, non ce n’è traccia). Ed è proprio con questa tendenza accumulatrice che Richard Curtis centra l’obiettivo: partendo dall’episodio reale di una stazione radio clandestina nel Mare del Nord (Radio Caroline nel marzo del 1964), il regista crea una summa ineccepibile dei Glorious Sixties, coinvolgendo lo spettatore in un viaggio musicale al quale non riesce a sottrarsi. E non vi si sottrae perché non è richiesta alcuna immedesimazione coi personaggi, alcuna compartecipazione emotiva, alcuno sforzo interpretativo.
La fruizione è pari a quella di una radio: disimpegnata, svagata e unicamente focalizzata sui pezzi.
A ciò si aggiunga la perfetta compenetrazione tra musica e diegesi filmica, soprattutto in scene quali il matrimonio di Simon, in cui l’arrivo della moglie Eleonore è accompagnato dall’omonima canzone dei Turtles; oppure l’estremo salvataggio di Bob ad opera di Carl sulle note, non a caso, di Father and Son. Ne risulta così un racconto subalterno, in cui sono le canzoni a comporre le storia e in cui quest’ultima, perso il dominio sul susseguirsi delle vicende, riesce unicamente a configurarsi come trait d’union tra un brano e l’altro.
Immagini e personaggi di un viaggio musicale.
Si parte quindi dal British Beat dei Kinks e Hollies in All Day e I’m Alive, per passar poi alle laceranti modulazioni della chitarra di Jimi Hendrix in The Wind Cries Mary o la più leggera Hi Ho Silver Lining (Jeff Beck).
Si torna poi alla British Invasion con gli Who (I Can See for Miles), i Troggs ( With a Girl like You) e i Tremeloes (Silence is Golden), per giungere al graffiante rock americano dei Box Tops (The Letter), dei Cream (I Feel Free) e Paul Jones (I’ve been a Bad Bad Boy). E come con un giro di manopola, ecco che il film capta le frequenze del soul nero di Martha Reeves and The Vandellas (Dancing in the Streets), dei The Isley Brothers (This Old Heart of Mine), di Lorraine Ellison (Stay with me Baby) e del mai dimenticato Otis Redding (These Arms of Mine).
Il viaggio prosegue con le note malinconiche di Cat Stevens (Father and Son), quelle enigmatiche dei Procol Harum (A Whiter Shade of Pale) e quelle psichedeliche di Tommy James and The Shondells (Crimson and Clover).
Per poi concludersi con Let’s Dance di David Bowie. La futura Let’s Dance, la Let’s Dance anni Ottanta. Quasi a sancire una non-fine, un percorso che valica i confini temporali e approda all’oggi. E dall’oggi ancora si sviluppa ed evolve come un ascolto ininterrotto, una radio delle epoche, una frequenza senza interferenze.
I love Radio Rock è musica. Solo e soltanto musica.
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