Regia: Pascal Laugier
Anno: 2012
Chi è l’Uomo Alto che rapisce i bambini? E se la sua faccia fosse assolutamente diversa da come ce l’aspettiamo?
La cittadina americana di Cold Rock è sconvolta non solo dalla crisi economica causata dalla chiusura della locale miniera, ma soprattutto dal fantomatico Tall man che da otto anni rapisce bambini senza lasciare indizi.
Nella città, dove evidenti sono i segni dell’abbandono, l’ospedale è gestito solo dall’infermiera Julia (Jessica Biel), che cerca di portarlo avanti dopo la morte del marito. Nonostante le accortezze della donna, una notte il figlio David sparisce dal suo letto, portato via dall’Uomo Alto. Julia lo rincorre ma, nonostante il rocambolesco tallonamento, il piccolo sparisce. Contusa e sconvolta, la madre trova l’aiuto di uno scontroso e solitario detective che la conduce nel bar del paese, nel cui retro la donna scopre un lugubre altare con le foto dei minori scomparsi, compresa quella del figlio. Riesce a fuggire ai suoi concittadini, che ovviamente la inseguono. È in questo momento che le parti si invertono: con colpi di scena e rivolgimenti piuttosto inaspettati i buoni cessano di essere buoni, e i cattivi si scoprono non così cattivi.
Sarà stata una sottile trovata pubblicitaria classificare I bambini di Cold Rock tra le pellicole horror, oppure una svista? Perché in realtà sono assenti tutti i cliché tipici di questo genere. Per chi poi ha visto Jessica Biel in Non aprite quella porta (“The Texas Chainsaw Massacre”, Marcus Nispel 2003, rifacimento dell’omonimo film del 1974 diretto da Tobe Hooper e vero cult tra le opere sanguinare e truculente) nasce spontaneo un confronto, pur con le dovute differenze, almeno rispetto alla prima parte della narrazione. Anche in questo caso, infatti, teatro delle vicende è una depressa cittadina americana, circondata da boschi tetri e pericolosi, abitata da cittadini che paiono accomunati, oltre che dalle difficoltà economiche, anche dalla condivisione di un macabro segreto. Questa volta però la bellissima Biel non è inseguita da un energumeno armato di sega elettrica, ma è piuttosto lei ad inseguire l’Uomo Alto nel momento in cui le rapisce il figlio. E qui che si interrompono le similitudini. È infatti nel momento in cui si assiste al capovoglimento dei ruoli che si percepisce di non essere di fronte a un horror – l’attesa di cadaveri, sangue e carneficine viene ancora una volta delusa – ma a un thriller che ad un certo punto vira verso la denuncia sociale, laddove affronta tematiche, quali l’abuso sui minori e l’adozione illegale, che aprono la strada a riflessioni etico-morali anche piuttosto sconcertanti. Riflessioni indotte dalla stessa voce narrante, quella di una ragazzina la cui sorella adolescente viene ingravidata dal compagno della madre -inerme e sconfitta- e che al tempo dei fatti era chiusa in un mutismo causato dal dolore e dalla rassegnazione. È lei soprattutto che insinua dubbi sulla netta delimitazione tra il bene e il male, anche alla luce della scelta assolutamente sorprendente alla quale giunge nella chiusa del film.
La pellicola si evidenzia soprattutto per le locations, molto adatte a un film di tensione e per la fotografia. Il ritmo narrativo è piuttosto coinvolgente, anche se a tratti la tensione decresce notevolmente. Lo stesso dicasi per la recitazione: Jessica Biel appare abbastanza monocorde, salvo poi riscattarsi durante le scene della conversazione in carcere. Poco verosimili alcune trovate, come quella della madre che si aggrappa al furgone (che ricorda più Erin di Non aprite quella porta che l’infermiera di provincia).
Come in Saint Ange del 2004 e nel controverso Martyrs del 2008, il regista Pascal Laugier ripropone il tema dell’infanzia abusata. Tuttavia, mentre nei due lavori precedenti l’argomento viene declinato in chiave horror, ne I bambini di Cold Rock la parte più meritevole riguarda proprio gli interrogativi sulle questioni morali.
Resta sospeso il quesito: “Ma allora il fine giustifica i mezzi?”. Forse.
Resta la tristezza della voce narrante e la mestizia delle immagini conclusive. E un finale in cui non si arriva ad una conclusione liberatoria o catartica ma ad una realtà, appena accennata e suggerita, eppure egualmente sconcertante. Una realtà che rimette in discussione i labili confini tra ciò che è giusto e condivisibile, e ciò che non lo è. Forse.
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