Regia: Bennett Miller
Anno: 2014
Foxcatcher – Una storia americana è un biopic dallo stile algido e raffinato sulla vita dei fratelli Schultz, campioni alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, e sull’assassinio di uno di essi da parte del miliardario John Du Pont.
I fratelli Schultz, Dave (Mark Ruffalo) e Mark (Channing Tatum), sono campioni di lotta libera e vivono in California, in cerca del riscatto da una vita senza molte possibilità. Mark è il fratello minore, dal carattere schivo e introverso. Dave, il fratello più esperto, gli sta accanto come un padre (che non c’è più) e lo allena con passione e tenacia. Un giorno Mark conosce John Du Pont (Steve Carell), appartenente ad una delle famiglie più potenti d’America che in passato fece la sua fortuna con le munizioni durante la Guerra di Secessione. Du Pont gli propone di entrare a far parte del suo Team Foxcatcher e di trasferirsi nella sua prestigiosa tenuta.
Vengono così a incontrarsi due realtà che più lontane non potrebbero essere: quella di un giovane psicologicamente fragile, che vuole affrancarsi dal fratello maggiore in cerca di una sua via; e quella di un uomo che non ha mai potuto realizzarsi in ciò che desiderava veramente, legato a doppio filo alla tradizione di una famiglia ricca che ha sempre messo davanti a tutto la propria immagine rispettabile e vincente.
Du Pont, privo di qualsiasi conoscenza tecnica e tanto meno pratica nel campo della lotta, s’improvvisa coach e forma una squadra di giovani talenti, la cui punta di diamante è rappresentata proprio da Mark, con l’obiettivo di vincere i campionati di atletica del 1988 a Seoul.
Dietro a tutto, però, si nasconde l’ombra dell’anziana madre di Du Pont (Vanessa Redgrave), donna fredda e riservata, che da sempre ha esercitato sul figlio una sorta di dominio psicologico e della quale John teme il giudizio. Anche per questo Du Pont vuole eccellere, per avere l’approvazione della madre e per dimostrarle che anche lui ce la può fare seguendo le sue passioni e i suoi interessi, lontani da tutti i trofei e le coppe vinte da generazioni nella caccia alla volpe, esposte brillanti con tanto orgoglio nella tenuta di famiglia.
Tutte le sue attenzioni si concentrano quindi su Mark, in cui vede una proiezione del suo ideale se stesso: la fragilità psicologica del giovane, a dispetto del fisico possente, è occasione per il miliardario per sentirsi più forte, più accettato e più credibile in una società che lo vede solo come membro di una potente famiglia, ma non John, un uomo con aspirazioni proprie.
Instaura così col giovane una strana relazione di dipendenza, un rapporto esclusivo e, in un certi momenti, quasi di plagio, come quando Du Pont introduce Mark all’uso della cocaina o sfrutta la sua immagine per esaltare indirettamente la propria. Tutto si complica quando nel team viene chiamato il più esperto Dave come allenatore. Du Pont comincia a guardare con sospetto il legame tra i due fratelli; Dave è come il rivale che gli sottrae l’oggetto delle sue attenzioni, ha una famiglia e dei figli ai quali vuole bene. Non ha nemmeno un briciolo della ricchezza di Du Pont e non è interessato ai soldi, ma ha dalla sua talento e amore, ciò che a lui è sempre mancato. Ora sta per sottrargli la sua speranza, il suo sogno, quel giovane che era ormai per lui un pezzo di vita, una parte di sé, probabilmente con una componente omoerotica, mai tuttavia esplicitata.
L’epilogo tagico è dietro l’angolo: in un momento di (lucida?) follia Du Pont spara tre colpi a Dave, lasciando il suo corpo steso davanti a casa sua e agli occhi increduli della moglie. Da lì a breve viene catturato dalla polizia.
Diretto con stile raffinato e sguardo acuto da Bennett Miller (Truman Capote – A sangue freddo, 2005, L’arte di vincere, 2011), il film è il ritratto di una vicenda tutta americana, una riflessione sul sogno di primeggiare, sul culto della personalità e dell’immagine vincente. Niente a che vedere, dunque, col genere del film sportivo, anche se non mancano scene di allenamenti e di incontri.
La pellicola scava nelle psicologie dei personaggi e mostra quello che c’è dietro la facciata del sogno americano e i retroscena di una delle più note famiglie d’America. Dietro i soldi, la rispettabilità e l’onore c’è la miseria umana, l’incomunicabilità e la fragilità che accomuna ogni essere.
Miller aveva già dato prova del suo talento con l’ottimo Truman Capote – A sangue freddo (Capote, 2005), che vantava una memorabile interpretazione di Philip Seymour Hoffman, film di maggior spessore artistico rispetto a Foxcatcher, che in qualche passaggio ha una sceneggiatura un po’ più fragile e tratta un tema forse dal minore appeal sul pubblico. Anche qui, tuttavia, il regista non rinuncia a creare un’ambientazione sospesa e ambigua e parte da fatti realmente accaduti per raccontare qualcosa di più universale, lavorando di cesello sulle interpretazioni degli attori.
Notevole la trasformazione fisica di Steve Carell (Little Miss Sunshine, Crazy, stupid, love, Il matrimonio che vorrei), quasi irriconoscibile sotto quello sguardo perso nel vuoto e quell’aspetto costantemente sul filo della follia, in un ruolo misurato e drammatico per lui insolito. Dei due fratelli wrestler il migliore è Mark Ruffalo (Conta su di me, In the cut, I ragazzi stanno bene), irrobustitosi per la parte e sempre generoso e intenso nelle sue versatili interpretazioni.
Dopo la Palma d’oro a Cannes 2014 per la miglior regia, per Foxcatcher – Una storia americana sono arrivate anche le meritate nomination ai premi Oscar 2015: miglior regia, attore protagonista (Carrell), attore non protagonista (Ruffalo), sceneggiatura e trucco. Nessuna purtroppo si è tramutata in statuetta.