Anno: 1999
Al 29° TGLFF si celebra il compianto Philip Seymour Hoffman con Flawless-senza difetti, di Joel Schumacher.
Sono due le storie che si raccontano in questo film, due storie che viaggiano parallele e che trovano il proprio punto di incontro in un luogo specifico, che funge da cerniera tra le varie componenti della trama e da luogo di convergenza delle diverse traiettorie esistenziali ritratte da Schumacher.
Qesto luogo è un albergo fatiscente in qualche meandro della periferia minore e negletta di New York e le due storie sono quella di come nacque un’improbabile amicizia tra Walt (Robert de niro) e Rusty (Philip Seymour Hoffman) e quella del malloppo rubato al temutissimo Mr.Z, piccolo ma feroce boss dello spaccio di quartiere.
Walt Koontz è un ex-eroe di polizia che durante una rapina, in gioventù, salvò la vita a quattordici persone e due colleghi, beccandosi una pallottola, una medaglia di latta, pensione anticipata e un ripiego un po’ avvilente come guardia giurata per una agenzia privata di sicurezza.
Rusty è la sua dirmpettaia, o meglio, per ora, almeno anagraficamente, è ancora il suo dirimpettaio, essendo al momento in attesa della fatidica operazione che la libererà da quel corpo improprio e gli permetterà di vivere quella femminilità che sente come sua sin da bambino in maniera finalmente piena.
Walt è un vero duro, atletico e macho, intriso di cultura omofobo-popolare, gran frequentatore di prostitute, che per una questione di integrità della propria immagine si rifiuta di vedere come tali:
«quante volte te lo devo dire: non vado a puttane…capito?».
Rusty, per racimolare il gruzzolo necessario alla sua operazione, fa lavori di cucito e canta in uno spettacolo di drag-queen le cui prove si tengono nel suo alloggio, luogo di ritrovo per la variopinta e indisciplinata combriccola delle ragazze che fanno parte dello spettacolo. Tutta la faccenda, ovviamente, non è troppo ben vista dal vicinato e in particolare da Walt, che per la vicinanza dei due alloggi risente particolarmente del gioioso baccano prodotto dai canti e dalle corografie di queste agghindatissime girls.
Gli sfoghi dell’ex-poliziotto prendono spesso una declinazione omofoba, come in questa bella scenetta di cordiale vicinato che avviene da una finestra all’altra:
Walt:«Ehi! Ehi! o chiudete quella finestra del cazzo o chiudete quella bocca di merda!!!»
Rusty:«Chiudila tu la finestra del cazzo!!!»
Walt:«Brutto frocio!!!»
Rusty:«La comunità gay ti ringrazia per il sostegno, brutto stronzo!!!»
Walt:«Vaffanculo tu e la comunità gay!!!»
Un lunghissimo montaggio in parallelo ci mostra momenti speculari delle vite dei due personaggi, attigue nello spazio eppure distanti anni luce, come la lunga scena delle due vestizioni rituali, che avvengono simultaneamente nei due alloggi: quella assolutamente virile e galante di De Niro e quella da perfetta divina anni quaranta di Philip Seymour Hoffman, i ritocchini vanesi di coprente con cui Walt maschera qualche capello bianco , il mascara glitterato e la stesura meticolosa di un rosso vivo sulle labbra di Rusty , La medaglia al valore e i ritagli di giornale che parlano dell’«East-side hero» Walter Koontz, e la grande specchiera dorata su cui troneggiano le foto delle grandi icone femminili del cinema (ho riconosciuto chiaramente una giovane Litz taylor e la Crawford) decorate con glitters e mille perline, la lozione dopo-barba e il profumo nebulizzato da una ricercata ampolla, un’aggiustata alla giacca e una sistemata al corpetto dorato, Walt che fa lo spavaldo in un locale di puttane, Rusty, su un palco di terz’ordine presenta canta e suona in uno spettacolo di drag non propriamente aggraziate.
Due mondi diversissimi ritratti sinteticamente, con poche pennellate.
A turbare questa alternanza altrimenti perfetta Schumacher interpola ai quadri dedicati ai protagonisti brevi scene che raccontano di come un giovane tossico si introduca in un alloggio dove stava avvenendo la compravendita di una grossa partita di droga e, rubata la grossa borsa traboccante di quattrini, si sia dato alla fuga inseguito dai micidiali scagnozzi di Mr-Z, il boss derubato.
La fatalità necessaria allo sviluppo della trama vuole che l’impavido ladruncolo si vada a rifugiare presso Ember, la sua fidanzata-prostituta, amica di Rusty, che ovviamente abita in uno degli squallidi appartamenti dell’albergo-stamberga che ormai conosciamo bene, proprio di fianco a quello del nostro trans-canterino, a cui chiederà di nascondere una certa borsa nel suo alloggio.
Fatto sta che in una notte di tregenda gli sgherri di Mr.-Z, grazie a una soffiata del portinaio dell’albergo, arrivano a presentare il salato conto ai due giovani, che vengono trucidati, producendo un frastuono che sveglia di soprassalto, insieme a Walt, il poliziotto-eroe che ablerga in lui, per cui afferrata la sua rivoltella si lancia senza indugio nella mischia in cerca di cattivi da castigare.
Ma il fisico non è più quello di una volta, non regge la tensione, e Walt viene colto da un’ictus.
Da qui inizia il film vero, lo svolgimento della trama propriamente detto, visto che tutta la parte precedente era stata una lunga presentazione dei due personaggi principali e delle loro caratteristiche salienti.
Questo nuovo film inizia con il coriaceo Walt che stenta a camminare, che ha gravi difficoltà nel parlare, e che sprofonda nel baratro della non-auto-sufficienza, in questo nuovo film l’eroe che abbiamo conosciuto si sbriciola, letteralmente, in mille frantumi di autocommiserazione vittimistica.
Nel contesto delle varie terapie di riabilitazione che il nuovo Walt mal sopporta è previsto anche un ciclo di lezioni di canto per il recupero della parola, così, per comodità e sperando di spuntare un buon prezzo, il nostro ex-poliziotto busserà alla porta della «checca isterica complessata» del piano di sopra.
Da qui scaturisce il lungo percorso della reciproca conscenza, della solidarizzazione che infine arriverà a legare questi due personaggi che in fondo si scoprono poi non troppo diversi, accomunati come sono da un patrimonio di sogni infranti, e mezze verità dette a sè stessi, di paure mascherate sotto una qualche scorza (da duro irascibile, da cinica egoista) e rimpianti.
L’intreccio con la gangster-story poi porterà a un prevedibile quanto rocambolesco finale, in cui Walt, secondando un certo buonismo made in USA, viene reintergrato nel suo ruolo di eroe, si becca nuovamente una pallottola in corpo ma salva l’amico e fa secco il capo dei cattivi.
Il film nel complesso mi pare diseguale al suo interno, alternandosi momenti alti e bassi per qualità di riuscita. E se certamente può dirsi azzeccata tutta la parte relativa alla denotazione e connotazione dei due personaggi e allo sviluppo del loro rapporto, altrettanto certamente possiamo individuare come tallone d’Achille di questo film la sottotrama di genere poliziesco che, quasi, affligge la componente sana con l’ostentazione di personaggi secondari costruiti in maniera troppo sbrigativa e anonima, sul cliché ricorrente del cattivo di second’ordine tutto violenza e stupidità, e di dialoghi della peggior qualità televisiva, che finiscono col minare la credibilità d’impianto delle scene in cui compaiono. Tanto più che questo elemento sembra inserito nel testo quasi a forza, risultando ben chiara l’intenzione dl regista di fare della componente relativa ai rapporti umani e al superamento delle diversità, il tema principale del film, su cui riversare tutte le cose migliori anche sotto il profilo registicoo-cinematografico.
Per parlare dapprima delle cose buone converrà concentrarsi decisamente sulle performances attoriche, a dir poco acrobatiche di Hoffman e De Niro, che certo brillano per ricchezza di mezzi espressivi e attorici impiegati, ma che proprio per questa prodigalità sono spesso state tacciate di over-acting, di sovra recitazione.
Due parti, quelle di Walt e Rusty, in cui la corporeità ha un ruolo primario nella caratterizzazione del personaggio, nella sua specificità cinematografica e l’ostentazione attoriale sembra quasi una necessità.
Il corpo di Hoffman, la sua fisicità poco longilinea, diviene il palcoscenico incarnato su cui si rappresentano tutte le contraddizioni e le dicotomie del suo personaggio, le dualità irrisolte della sua identità. Gli ori e i belletti, i tacchi vertiginosi e slancianti, creano una serie di contrasti grotteschi con quella figura rotondetta che tenta di nascondervisi sotto, le pose vezzose, la grazia che ne anima ogni gesto, stridono con le mani grassocce e con la faccia larga, gli atteggiamenti da sofisticata diva sembrano surreali. Corpo dei contrasti, comico e tragico insieme, uomo e donna, maliardo e goffo, così come duale, scissa, è l’identità a cui questo corpo contraddittorio fornisce la carne, tra un’identità fisica da uomo non propriamente aggraziato e una identità pscicologica, un sentire, che è squisitamente femminile.
«Sono più uomo di quello che tu sarai mai e più donna di quelle che hai mai avuto.»
Hoffman cerca la teatralità quasi ostentata, secondo un intento che è contemporaneamente caricaturale e drammatico, una interpretazione spettacolarizzata dell’omosessualità che non mira né alla rappresentazione realistica del fenomeno generale né alla restituzione del ritratto veritiero di una persona reale con questo tipo di identità personale e sessuale, ma alla proposizione di una omossessualità astratta, quasi simbolica, fatta anche di quegli stereotipi e convenzionalità degradanti che ne riguardano la rappresentabilità cinematografica, oltre che culturale. Il ritratto che ne emerge è toccante e umano, divertente e scanzonato, disperato ma tenuto in vita da una speranza talmente incrollabile da riuscire a dissipare il crepuscolo venefico che ha preso la vita di Walt.
Si ride di un riso sghembo quando vediamo quella figura larga caracollare sui tacchi a stiletto che gli conferiscono l’ancheggiare di una grossa papera, un riso che tuttavia non è pacificante o liberatorio, perché sotto l’epidermide sottile dell’effetto comico di più immediata presa, dalla performance di Hoffman emerge tutto il senso dell’umano dramma che vibra sotto quei lustrini, la solitudine e il difficile percorso di auto-accettazione-identificazione che ne sono la storia.
Il tema dell’identità, com’è ovvio, costituisce uno degli assi portanti di tutta la costruzione drammatica e ritorna anche nei frequenti scambi di battute tra i due personaggi, da cui non manca di spirare tutto il senso di quella sana e virile cultura omofobica di estrazione popolare di cui Walt è uno dei campioni:
Walt:«Ma come fa un uomo a tagliarsi il pisello e le palle? Perché lo vuoi fare?»
Rusty :« Perché… Sono una donna intrappolata nel corpo di un uomo, tesoro…»
Walt : «No, tu non sei una donna, no. »
Rusty : «Io non sono la tua idea di donna, Walt.»
Walt : «Eh… tu non sei l’idea di donna di nessuno.»
Rusty : «Sono la mia idea di donna.»
E se per Rusty il percorso verso una nuova identità, che troverà il suo compimento con la definitiva trasformazione (per via chirurgica) di quel corpo sbagliato, è un fatto voluto, ricercato come scopo di una vita intera, per Walt è un disgraziato accidente, un’imposizione inaspettata e crudele della vita, cui suo malgrado non può sottrarsi.
Sì, perché anche Walt è soggetto a una vera e propria transizione identitaria, a una dolorosa ri-definizione del proprio io, dal Walt-eroe dalla personalità coriacea che vediamo a inizio film, a quello accasciato su se stesso e auto-commiserevole della prima fase del suo ritorno alla vita, a quello in via di risoluzione che intravediamo sul finale.
Un tracciato, anche questo, che si ritrova tutto nel decorso involutivo che riguarda la fisicità di De Niro. A inizio film l’obiettivo di Schumacher indugia più volte sulle muscolose spalle e sulle braccia tornite e ben definite che Walt sfoggia durante una partita di pallamano che apre la prima sequenza (fig. a fianco). L’esibire l’attributo della muscolarità come prima forma di presentazione di questo personaggio fa sì che questa sua caratteristica lo qualifichi in toto e, nell’idea immediata che se ne fa lo spettatore, diventi una caratteristica che lo identifica anche dal punto di vista psicologico: Walt è come i suoi muscoli, tosto, scattante e pronto all’azione. In un sistema di senso così costituito, allora, è facile capire come la sopraggiunta infermità del corpo si trascini dietro tutta la consistenza psicologica del personaggio, per cui il nuovo Walt sarà esattamente come il suo corpo, leso, menomato disfunzionante (fig. sotto).
La difficoltà della sfida attorica che De Niro accetta di buon grado, da provetto membro dell’Actor Studio, stà nel senso di misura che qui si richiede per garantire alla parte il necessario grado di spettacolarità (cioè di simulazione, di esagerazione) che la renda interessante per l’obiettivo, ma che al contempo la renda credibile e apparentemente priva di finzioni attoriali. Un equilibrio indispensabile, questo, che consenta ad attore e regista di evitare le cadute sin troppo facili nel pietistico e nel melodrammatico ma che allo stesso tempo consenta una caratura fortemente emozionale e intensa del personaggio e che pur nel dispiegamento delle notevoli capacità espressive dell’attore riesca a tenere alla larga il caricaturale involontario, l’inconsapevolmente ridicolo che si annida in certe esasperazioni mimico-recitative.
L’interezza del film sembra reggersi quasi esclusivamente su queste due non facili prove d’attore, visto che poi Schumacher poco investe sul piano formale, disadorno com’è di cifre autoriali evidenti. Il regista adotta una grammatica essenziale di movimenti di macchina e inquadrature che seguono dialoghi, traiettorie dello sguardo e i movimenti interni al quadro in maniera quasi pedissequa, un montaggio dalla eminente funzione narrativa che non si inceppa in arzigogolii di sorta ma che non prova arditezze e non si lascia blandire da alcuna ritmicità rimarcata. Nitidissima la fotografia, accesa di colori intensi, pastosi anche quando scuri, ma per lo più tendente a una vivacità accesa, soprattutto nelle scene in cui compare Rusty con i suoi abbigliamenti e ambienti policromi e kitsch, tuttavia non sembra che esista alcuna intenzione significazionale ulteriore che riguardi i valori cromatici, la cui valenza, evidentemente, si ferma a livello del fotografico-pittorico.
Non mancano le trovate gustose e divertenti, come quando durante la scena finale Rusty, risolve un brutale corpo a corpo con uno degli scagnozzi di Mr.Z freddandolo con un colpo di tacco a spillo in fronte, o quando trasforma la sua lima per unghie in una micidiale arma bianca, o come i siparietti ricorrenti in cui il tossico dell’alloggio di fianco a quello di Walt, compone canzoni assurde sulla fidanzata Ashley che ho lasciato.
Lo sviluppo della narrazione sembra affetto da una certa indolenza che rallenta la fruizione dello spettatore rendendola meno frizzante di come poterebbe essere, visti gli spunti messi in campo. Oltretutto, come già ho avuto modo di notare, l’inserimento delle sequenze che seguono lo sviluppo della gangster-story contribuisce non poco a spezzarne la continuità con interventi non sempre opportuni.
Alcune scelte stilistiche non sembrano sempre ben radicate alla temperie emozionale e psicologica del testo, come l’onnipresente e malferma visione da camera a mano, che qui non serve a sottolineare i momenti di particolare instabilità psichica o emozionale di questo o quel personaggio, magari inserita in un sistema di contrasti significativi con altre inquadrature più ferme e di valenza psico-emozionale contrastiva, ma viene spalmata, per così dire, su tutto il film, come modalità di visione unica e indifferenziata per tutti i tipi di situazioni e contenuti emotivi. Che sia chiaro, non si intende eccepire sul gusto o porre in discussione il percorso concettuale compiuto da Schumacher per approdare a quella specifica determinazione formale-stilistica, tuttavia sembra legittimo riflettere sul peso specifico e sulla utilità effettiva per l’esposizione filmica di una scelta che parrebbe puramente estetica, un vezzo visivo che diventa onanistico, in mancanza di un referente significazionale esterno.
Alcune scelte di grammatica audio-visuale non sembrano padroneggiate perfettamente, o non producono gli effetti di senso sperati.
La scena dell’ictus di Walt presenta, solo per fare un esempio, una serie di disturbi della visione come rallentamenti e sfocature, sdoppiamenti d’immagine ecc., che intendono manifestare visivamente l’accesso di malessere del nostro eroe. Il punto di vista da cui osserviamo la scena sembra slittare, almeno un paio di volte, da interno al personaggio (regime di soggettiva: vedo le stesse cose che vede il personaggio) a esterno ad esso (regime di oggettiva: vedo il personaggio con un occhio esterno), per cui l’inizio della scena è visto con gli occhi di Walt (o almeno il regista ce lo fa credere per un breve periodo, trattandosi di una falsa soggettiva), il suo svolgimento intermedio è visto dall’esterno, per cui ci mostra il nostro in regime di oggettività e il finale, con Walt steso a terra che viene soccorso dai poliziotti, di nuovo in regime di soggettiva, per cui vediamo i volti in primo piano dei soccorritori come se fossero chini su di noi. Il principio generale secondo cui al cinema è sempre possibile rendere l’idea di una qualche condizione di disturbo fisica o psicologica attraverso una equivalente forma di di disturbo della visione, qui è interpretato correttamente, ma applicato in maniera equivoca poiché riferito a differenti soggetti di visione. Le difformità della vista di cui sopra, infatti, sono legittime solo quando ci troviamo in regime di soggettiva, cioè all’interno di Walt, vedendo quello che vede lui attraverso gli occhi di un uomo che sta avendo un ictus e che quindi sperimenta una visione alterata. Per lunghi tratti della sequenza l’obiettivo di Shumacher, invece, resta all’esterno del personaggio, in regime di oggettiva, ed è proprio Walt che vediamo arrancare per le scale deformato e sdoppiato (fig. qui a lato), come se l’occhio di un testimone silente e ubriaco lo stesse spiando, creando per lo spettatore una sorta incoerenza tra le modalità della narrazione e i suoi contenuti e portandolo a percepire come superfluo un effetto visivo che non riesce a collegare a un preciso contenuto filmico.
Alcune perplessità, poi, riguardano l’impianto di visione generale, sopratutto per la messinscena delle tematiche, delicatissime, relative alla cultura LGBT, che qui soffrono di una rappresentazione vagamente stereotipa e superficiale (penso al gruppetto delle amiche di Rusty, tutte isterie e frivolezze, e alle varie liti tra vari gruppi di aspiranti al concorso di bellezza) che solo grazie alla sensibile prova di Hoffman recupera, almeno in parte, quel portato di implicita problematicità e densità introspettiva che inevitabilmente accompagna questo tipo di storie. La visione di Suchmacher ri-attualizza, non saprei quanto volontariamente, lo steretipo della «checca isterica» tutta gridolini e paillettes in una rappresentazione che confonde e sovrappone gay, travestiti, trans-gender ecc. senza prestare troppo peso a cavillose e sottili distinzioni che a quanto pare interessano poco al regista, ma molto a chi, con la propria identità, ci si deve confrontare ogni giorno.
Credo tuttavia che su questa parte del giudizio gravino in qualche misura quel tipo di aspettative che riguardano i film con protagonisti omosessuali, da cui ci si aspetta sempre e comunque un certo grado di impegno civile, di contribuzione a quella lotta disperante che riguarda il riconoscimento delle identità sessuali non omologate dall’ideologia imperante e dei più elementari tra i diritti connessi alla persona. Shumacher assume il dato dell’omosessualità più che altro come elemento spettacolare, di caratterizzazione di certi personaggi, senza darsi ulteriori necessità di scavo, e confeziona un testo che non sa, o forse semplicemente non intende, avvicinare il grande pubblico alle tematiche LGTB, a produrne una diversa comprensione e dunque a diminuirne il grado di estraneità dal sentire di quelli che come Walt si definiscono normali.
Resta, al di là delle polemiche e delle interpretazioni, il valore indiscusso di due grandi prestazioni attoriche, sufficienti, col loro pondus schiacciante, a rendere comunque interessante la visione di questo film per un pubblico mediamente vasto e non necessariamente interessato alle tematiche LGBT.