Regia: Lucía Puenzo
Anno: 2009
Tratto dal racconto omonimo scritto dalla stessa regista nel 2004, El niño pez è stato presentato al Festival di Berlino nel 2009, e ha vinto la passata edizione del Festival LGBT di Torino. Un film intenso, giocato sui toni di un’emotività forte, in grado di condizionare l’intero impianto formale, e orientato, specialmente nella porzione conclusiva, ad assumere i registri del melò dal segno drammatico, quasi tragico.
La narrazione è stata frammentata dalla regista su piani temporali sfalsati che si legano tra loro in un montaggio discontinuo ma pacato sotto il profilo ritmico, che alterna porzioni di presente a flashback che ne chiariscono i presupposti passati, ma che riesce comunque a mantenere un buon grado di linearità nell’esposizione fabulatoria.
La storia è quella dell’amore incantato e incantevole, per profondità e purezza, della giovane Lala, figlia della miglior borghesia argentina, per la bella Ailin, da tutti detta “la Guayi”, cioè la paraguaya in accezione vagamente dispregiativa, governante paraguagia al servizio della sua famiglia. I due personaggi sono affidati rispettivamente a Ines Efron, già attrice-icona della Puenzo in XXY del 2007 (ma anche in La Mujer Sin Cabeza di Lucrecia Martel del 2008), e Mirela Vitale (Eva&Lola, regia di Sabrina Farji, Argentina, 2010) cui si affiancano Carlos Bardem (Transgression di Enric Alberich, 2011; Cella 211– Celda 211, di Daniel Mònzon, del 2009) nel ruolo del commissario corrotto e Pep Munné (Insane, per la regia di Fernando Càmara, nel 2006; L’imbroglio Nel Lenzuolo di Alfonso Araduel 2009 ).
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Inizia da subito una ben raccordata alternanza di flash back che alternano brevi scorci passati del ménage di coppia delle due e la narrazione del tempo presente.
Un notiziario che Lala vede (si intuisce che siamo nel suo presente) da un televisore nella vetrina di un negozio ci informa dell’avvenuta morte di suo padre, in una bella scena che si segnala per il carattere misuratamente instabile della visone, fatta di immagini traballanti e tenuemente vertiginose, che rendono bene lo stato di sbandamento emozionale della giovane.
I continui salti nel tempo della storia creano un dispositivo narrativo (forse un po’ abusato nel cinema di questi ultimi anni) che da un lato ripercorre il passato e ci racconta di come a quella morte si sia arrivati, e dall’altro permette alla regista di portare avanti la narrazione, mostrando cosa avviene nella vita delle protagoniste a partire da quella morte in poi.
È così che apprendiamo che l’assassina è Lala stessa, la quale offrendo al genitore un bicchiere di latte avvelenato ha inteso vendicarsi in modo definitivo e irrimediabile del fatto che questi, approfittando della propria posizione di datore di lavoro, intrattenesse una clandestina relazione sessuale con la bella governante.
La giovane parricida, dopo una breve fuga in Paraguay apprende che l’amica è stata arrestata al posto suo e manifesta l’intento di costituirsi per scagionarla.
Prima di riuscire a farlo, tuttavia, Lala smaschera un sordido giro di abusi sessuali cui le giovani detenute erano costrette a sottostare da sordidi funzionari di polizia e personale del carcere.
Armatasi di pistola l’implacabile amante raggiunge la dimora del poliziotto corrotto e corruttore (Bardem) che stava per rivolgere le proprie morbose attenzioni alla bella amata e lo fredda con un colpo al cuore.
Si salvano in maniera rocambolesca, le due amanti, e il film chiude con la loro fuga verso il tanto agognato Paraguay, lasciandoci con mille dubbi circa la riuscita dell’impresa sulle possibilità della loro felicità.
Il film è condotto con intelligenza dalla Puenzo che sfrutta l’occasione offertale dalla narrazione di questa love story contrastata e difficile per offrire uno spaccato polemico della società argentina.
Il pregiudizio razziale e quello su base economica, la dissipatezza morale con cui rispettati membri della comunità (il giudice, il commissario in primis) soddisfano brame sessuali di bassa estrazione, emergono senza eccessi retorici, in maniera forse troppo elementare, in alcuni passaggi, ma comunque chiara e diretta.
L’oggetto più immediato del film sembra essere la passione amorosa tout court e la declinazione omosessuale sembra lasciata più sullo sfondo, a fornire un contesto generico, più che l’oggetto di una disamina approfondita. Si inscena un sentimento fortissimo, capace di spingersi oltre il limite dell’atrocità, per gelosia, per ineludibile senso di possesso eper terrore della perdita, piuttosto che decrittare le interne e delicate dinamiche del rapporto tra esseri uguali. Non c’è lotta per l’accettazione-affermazione di una identità, in El niño pez, ma la narrazione del dolore che incontra l’amore quando urta contro la dura pelle della vita.
Una visione dell’esistenza dai forti contrasti, quella della Puenzo, agitata da passioni anche feroci, che potrebbe risultare per alcuni, magari armati di categorie di giudizio troppo poco elastiche, eccessivamente propensa al melodrammatico, al sentimentalismo.
L’aspetto migliore del film si ritrova certamente nelle sue immagini, modellate da un iconismo morbido, che anche quando indugia sull’incupimento dei cromatismi non perde di dolcezza, non si inasprisce, tanto che anche la rappresentazione della violenza ne risulta in qualche modo attutita.
Scene d’amore di grande dolcezza, inondate da luci ambrate, soffici seppure spesso radenti, usate per valorizzare in maniera quasi scultorea i volumi dei corpi e, soprattutto dei volti, che campeggiano a tutto schermo in intensi primi piani e dettagli, di forte carica emozionale.
La regista modula con una certa agilità i registri espressivi delle proprie combinazioni audiovisive, anche se in modo vagamente scolastico. Nelle scene dedicate alle passioni più violente produce contrasti cromatici più duri e luci raffreddate, tendenti al bianco di zinco o belle composizioni di neri intrecciati in articolate ombreggiature, che incorniciano campiture di rossi cupi, blu petrolio o gialli sporchi, in alcune scene notturne.
A tratti lo sguardo, della Puenzo assume atteggiamenti a dir poco pittorici come nella scena subacquea che ha luogo quando Lala si immerge nel lago. Qui la regista non si lascia sfuggire l’occasione per creare una serie di piani interamente virati verso il blu e il verde scuro, in cui l’immagine perde la nettezza dei contorni in favore di uno sfumato morbido e vagamente sensuale. I cromatismi, incorniciati dal nero dei bordi dell’inquadratura e da un leggero effetto mascherina ovaleggiante, risultano fortemente evocativi, onirici.
La recitazione di entrambe le protagoniste si impronta ad un registro della naturalezza agile, privo di arditezze o pezzi di bravura da picco emozionale, ma sempre e comunque misurato rispetto alla parte e funzionale alle necessità di personaggio e narrazione. Non è da escludersi, tuttavia, che su questa parte del giudizio pesi non poco la scarsa conoscenza che chi scrive ha degli usi gergali e dei modi linguistici dell’utilizzo quotidiano dello spagnolo argentino.
Le scelte musicali accompagnano il contenuto emozionale delle varie scene assecondandone il segno e la misura emotiva, adottando spesso la tecnica del motivo ricorrente. Si tratta per lo più di temi fortemente caratterizzati in senso etnico, sudamericano. Sarebbe inutile tuttavia farli oggetto di una analisi separata, mancando nel loro utilizzo, l’espressione di una volontà di significazione di forte segno che si esprima acusticamente.
Un film godibilissimo, in conclusione, e indicato soprattutto, ma non in via esclusiva, per un pubblico che ama commuoversi con misura e intelligenza, e che sappia apprezzare i pregi di una bella forma cinematografica, consapevole ma non estrema, non originalissima nella tessitura linguistica ma confezionata sempre e comunque da una mano abile e sicura nelle scelte di gusto.