Regia: Henry Alex Rubin
Anno: 2013
Qualche anno fa la tendenza di un certo cinema indipendente e impegnato mostrava trame composte da più storie, apparentemente slegate tra di loro, che nel corso della narrazione andavano poi ad intrecciarsi, componendo un unico affresco. Autori come P.T. Anderson (Magnolia, 1999), Inarritu (Amores perros, 2000, Babel, 2006), Soderbergh (Traffic, 2000) e Haggis (Crash, 2004) sono ricorsi a questa soluzione narrativa, che negli ultimi anni si era un po’ persa.
Henry Alex Rubin riporta sugli schermi un film corale con tre storie che procedono parallele e che hanno come denominatore comune l’incomunicabilità tra le persone e la solitudine al tempo di internet, delle chat e dei social network.
Periferia di New York. La giornalista di una tv locale conosce un giovane modello in una video chat per adulti e lo convince a farsi intervistare per portare a galla le storie di ragazzi che come lui vengono sfruttati per fini di profitto sui siti pornografici. Due ragazzini, invece, si prendono gioco di un loro coetaneo timido e solitario creando su facebook il falso profilo di una ragazza che lo contatta ed instaura con lui un dialogo che si fa sempre più intimo. Infine una giovane coppia entra in crisi in seguito alla morte del figlio: il marito spende forti somme giocando online, mentre la moglie si confida con uno sconosciuto che, come lei, ha vissuto la stessa esperienza.
Ogni storia prende una brusca piega, generando conflitti, tensioni e risvolti drammatici che solo l’umana comprensione, il dialogo e il perdono potranno forse risanare. La giornalista vorrebbe redimere il ragazzo della video chat, ma entra in contatto con una squallida realtà ed affronta i rischi dell’esporsi in prima persona. La coppia in crisi viene invece derubata online di tutti i risparmi con la clonazione della carta di credito ed il marito vuole farsi giustizia da solo, andando alla ricerca dell’hacker.
La storia più toccante è quella di Ben, il ragazzino sensibile e privo di amici che finisce vittima del bullismo dei suoi coetanei, chattando con il profilo fasullo di un’ignota Jessica. La vicenda finisce in tragedia, mettendo in discussione l’equilibrio delle famiglie dei ragazzini, i cui padri troppo presi dai loro lavori si sono troppo spesso dimenticati dei figli.
Disconnect è uno specchio dei nostri giorni, in cui ormai nessuno riesce più a fare a meno di connettersi alla rete da un computer, un cellulare o un tablet, totalmente assorbito da una realtà sempre meno virtuale e incurante dei risvolti concreti che possono derivare. Causa ma anche effetto di questa situazione è l’incomunicabilità e l’angoscia della solitudine, dove risulta più facile accendere un computer che parlare faccia a faccia con un essere umano.
Il film mostra senza moralismi il ritratto di un’umanità fragile e sola, osservando da vicino la realtà come dato di fatto e senza giudizi. Il filtro dello schermo di un computer è come un richiamo, una necessità, che può rendere più disinibiti, a volte più sinceri, può portare a confidare i propri sentimenti a sconosciuti, ma anche a far del male agli altri.
Presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2012 (ma distribuita solo nel 2013), la pellicola ha un buon ritmo e una ben dosata tensione narrativa che esplode nel finale ed è sorretta da un cast ispirato di attori per lo più sconosciuti, ad eccezione di Jason Bateman (Juno, Come ammazzare il capo…e vivere felici), qui in un raro ruolo drammatico, Hope Davis (Cuori in Atlantide) e Alexander Skarsgaard (The east). Il talentuoso regista, ad oggi noto solo per il documentario Murderball (2005), nominato all’Oscar, e precedentemente come secondo aiuto regista di James Mangold (Ragazze interrotte), è senza dubbio da tenere d’occhio. Un film da vedere e meditare perché ci guarda da vicino e lascia lo spettatore con un salutare retrogusto amaro in bocca.