Regia: Javier Fuentes – León
Anno: 2009
Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli Dei. Perché sfidando, a ritroso, il flusso uniforme del conformismo si può svelare la formula della felicità, la cognizione di sé!
Un lido. Il sole cocente del Perù. Due nerborute sagome maschili che consumano l’amore dinanzi allo specchio del mare. Gabbiani dal verso discorde e schiere fitte di sgraziati pescatori. La salsedine.
Questi i cardini lirici di Contracorriente (2009), opera prima di Javier Fuentes – León, proposta nella suggestiva cornice notturna di Villa Borghese in occasione del Queering Roma, festival cinematografico LGBTQ della capitale.
Miguel (Cristian Mercado) e Santiago (Manolo Cardona) si amano. L’amore non sempre può esser gridato. L’amore non sempre può esser vissuto. L’amore non sempre può esser manifestamente consumato. Dal silenzio nasce, allora, il dolore. Dal dolore, il passo verso la morte è breve.
Una delicata pellicola che descrive il tormentato percorso di chi, per crescere in dignità, è costretto a soffiare contro i mulini del pregiudizio, a risalire le onde giganti controcorrente, a rifondare su basi non pregiudiziali la coscienza comune.
Lui ama Lui. Un pescatore ama un pittore. Baci rubati al silenzio dell’oceano. Orgasmi disegnati sulla sabbia e cancellati alla prima marea. Miguel è sposato con Mariela (Tatiana Astiengo) e i due aspettano un figlio. Nessuno sospetta nulla: solo la tiepida brezza estiva conosce l’essenza vera del reale. Santiago muore annegato. Da ora in poi la concretezza e la fantasia assumono forme similari e si confondono sino a creare un nesso inscindibile.
L’ombra del defunto si reifica dinanzi agli occhi dell’amato. È morto, ma la vista cieca di chi rimane al di qua percepisce come tangibile quella fantasmatica presenza. Ora che non c’è più i due uomini, di almodovariana memoria, possono finalmente camminare, inosservati, per le polverose vie, sfiorarsi le mani senza che alcuno se ne accorga, sentire le labbra non temendo la crocifissione dello scandalo. Miguel può vivere il suo sentimento proprio quando l’oggetto del desiderio è irrimediabilmente perduto.
Ritrovare il cadavere, offrirgli l’onore delle esequie, significherebbe privarsi di quella rasserenante ombra che deambula, infelice, tra l’intermittenza della vita e della morte. Legare ad uno scoglio il lasso corpo, ritrovato nei fondali marini, per continuare quella consolatoria esistenza dagli evidenti contorni schizoidi, sembra l’unica soluzione per soffrire meno e agire da padre, da marito e da galeotto amante nel contempo.
Il fato imponderabile, l’anello che non tiene, fa riemergere dagli insondabili abissi Santiago e, con lui, ciascuno dei segreti naufragati. L’urto con il muro della verità è per la moglie causa d’infinito dolore. È per la comunità momento di sanzione e biasimo, prima, accettazione poi. È per il solitario protagonista occasione di riflessione profonda, autoanalisi e dolorosa presa di consapevolezza.
Il tragitto verso la comprensione di sé è, sovente, il più impervio fra tutti. Abbracciare i contorni del proprio ego, anche i più discontinui, e palesarli al mondo è un’impresa spesso tormentata. La coincidenza fra l’essere e l’apparire è la più ardua tra le lotte. Capirsi è un cammino a ritroso, in salita, controcorrente. Per gridare occorre voce. Per gridare occorre fiato. Per gridare occorre forza. Nella nostalgia del distacco Miguel si riscopre forte abbastanza. Uomo vero.
L’inverosimile spunto di un fantasma dai lineamenti palpabili che, inquieto, vaga in una dimensione mediana sino all’espletamento di un predefinito compito, più o meno chiarito, non può non evocare il plot di un classico della letteratura cinematografica: Ghost (Jerry Zucker, 1990). Anche quella storia sintetizza la virulenza di un sentimento falciato dalla morte. Anche quella vicenda sofferma lo sguardo sull’improbabile binomio tra chi continua ad esistere e chi non c’è più. Anche quell’intreccio affida all’anima del caro defunto il ruolo di causa agens dell’azione. Medesimo il dolce e inesorabile epilogo: un fermo e incontrovertibile distacco. Un bacio ed è lungi.
L’intelaiatura dell’intero racconto ripropone, nonostante il macroscopico capovolgimento topico, i momenti fondanti de I segreti di Brokeback Mountain (Brokeback Mountain, 2005) di Ang Lee. Un’inconfessabile attrazione virile, un’intima intesa clandestina, un’insopportabile ma obbligata accettazione, un’ostinata ricerca di fuga da sé. Il matrimonio è labile facciata. Quando il velo di Maya si leva via, l’apparir del vero diviene insopportabile per la moglie e per l’intera comunità celata dietro quell’unico volto muliebre. La morte si fa, anche in questo caso, latrice di autenticità.
Simili movenze si rintracciano ne La Seconda Pelle (Segunda Piel, 1999) di Gerardo Vera, il lungometraggio che descrive, in chiave borghese, lo struggente diario sentimentale di Diego (Javier Bardem) ed Alberto (Jordi Mollà), ragazzi bruciati dal fuoco dell’ardore e costretti, dalle strettoie del conformismo, a sacrificare la vampa della loro ferina e docile attrazione. La morte è il consueto triste suggello.
Controcorrente, à rebours – come avrebbe detto Huysmans – si scova l’essenza di ciò che appare, ma non è.
Usciti dalla sala, il silenzio. Un languore amaro è l’ultimo lascito.