Jasmine, affascinante e viziata donna dell’upper class newyorkese, perde tutto quando il marito Hal, broker maneggione, viene arrestato e si suicida in carcere. Sommersa dai debiti e in preda a crisi di panico, si trasferisce a San Francisco dalla sorella, provando a ricominciare.
Quasi ogni storia di Woody Allen, parafrasando un detto di Karl Marx, è scritta e incanalata sullo schermo in due versioni, scorrendo contemporaneamente come tragedia e come farsa/commedia (umana). Come nel double plot di Melinda e Melinda (2003), per l’autore pessimismo radicale e leggerezza vanno (da) sempre a braccetto. Non solo due facce della stessa medaglia, ma inevitabile e scisso modus vivendi incarnato nello stesso personaggio, dalla medesima faccia (la sua, quella degli attori, e dunque anche la nostra).
Per Blue Jasmine Allen sceglie il viso pallido e sgualcito, le occhiaie e la pelle tirata, gli occhi azzurri annacquati e brilli di una perfetta e sgradevole Cate Blanchett. Ma lascia spazio solo al dramma, all’inaridimento materiale/esistenziale di una principessa (de)caduta bruscamente dal tappeto volante. Accantonando quasi completamente l’umorismo salace e l’abituale campionario di battute corrosive.
Più che un’opera dissacrante, l’analisi minuziosa di una personalità dissacrata e disastrata. Deconstructing Jasmine: un’altra donna alleniana in crisi. Nervosa e furente in seguito a un trauma più che nevrotica per costituzione. Comunque nella scia delle problematiche figure femminili di Interiors (1978), Hannah e le sue sorelle (“Hanna and Her Sisters”, 1985), Un’altra donna (“Another woman”, 1988), Alice (1990).
Presa e persa a ricostruirsi, nel rimettere assieme i cocci di un’illusoria esistenza al di sopra degli altri. Impietoso ritratto di signora spogliata di pellicce e certezze, a cui non restano che sproloqui farneticanti con se stessa (i ricordi-flashback) e vodka-martini ingollati a ripetizione.
Sempre girata dall’altra parte, per non incappare nella prosa della vita. In una realtà gravosa, troppo umile e umiliante, di cui si sospetta la presenza, ma si preferisce continuare a non vedere.
Fuori da una menzogna per cucirsene subito addosso un’altra, tentando di acchiappare un giovane diplomatico con ambizioni politiche. “Tutti si reinventano un pò”, dice Jasmine alla sorella che pone questioni morali, e Allen certo non si indigna, non potendo che sottoscrivere.
Pur non così partecipe dei destini degli spiantati di provincia (Allen non è certo mai stato un cantore del proletariato), il regista riesce a renderci simpatici e vitali gli sgangherati e buffi personaggi come la sorella Ginger, l’ex marito Augie, il nuovo compagno Chili con la combriccola di amici beoni, “sfigati” al di sotto di qualunque accettabile livello per Jasmine.
Ma alla fine sono proprio loro, pur defraudati di sogni e risparmi dagli squali del crack finanziario (l’Hal di Alec Baldwin ispirato a Bernie Madoff), a tentare di apprezare la vita e azzardare un (precario) futuro comune (Ginger e Chili).
Perché sull’altro versante del mondo, gli stimati professionisti sono molestatori di segretarie, come il ridicolo dentista (“si possono capire tante cose guardando nella bocca della gente”) che zompa addosso alla neo impiegata Jasmine. O il finto gentiluomo Alan, installatore di hi-fi che colpisce Ginger per la sua “educazione” ma subito si rivela fedifrago impaurito in fuga alle prime difficoltà.
Meglio allora il rude macho da officina Chili, tutto pepe e manacce sporche di grasso, che sì prende fuoco staccando un telefono dal muro, ma è anche l’unico a volersi assumere la responsabilità di una famiglia e di figli non suoi, a patto che gli si lasci sbafare l’ultima fetta di pizza rimasta davanti alla Tv.
E Jasmine? Finisce bene? Finisce male? Il punto non sta qui, nel giudizio. Ma nell’eterno e irrinunciabile ritorno alla tentazione dell’illusione (in)consapevole, che per Allen costituisce la natura dell’effimera esistenza umana. Perché tutti “abbiamo bisogno di uova” (Io e Annie insegna), che siano desideri velleitari da inseguire o ricchi polli da spennare. Jasmine riascolta allora le note di Blue Moon (o sono solo l’ennesimo ricordo, l’ultimo pezzo dello schizofrenico stream of consciousness?), la canzone da cui l’incantesimo d’amore e denaro prese avvio. Provando a ripetere parole e strofe tra singhiozzi balbettanti, forse per riaprire ancora una volta lo scrigno di una vita dorata, mentre sta seduta malinconica su una panchina.
La solita, ottima scelta del cast e un’eccelsa direzione degli attori (nota di merito per la Ginger di Sally Hawkins, già fidanzata povera e stupidotta di Colin Farrell in Sogni e delitti, “Cassandra’s Dream”, 2007). La raffinata regia invisibile, il realismo tiepido e luminoso della fotografia (torna Javier Aguirresarobe dopo Vicky Cristina Barcelona, 2008), gli interni saturi e vibranti di Santo Loquasto, tra opulenza regale e bilocali disordinati.
Nettamente superiore all’opera precedente (To Rome with Love, 2012), pur non baciato dalla grazia che ammantava Midnight in Paris (2011), Blue Jasmine ci restituisce comunque un Woody Allen in ottima forma.