Regia: Rodrigo García
Anno: 2012
Glenn Close-Albert Nobbs, una donna triste che finge di essere un uomo triste.
Donne en travesti al cinema se ne sono già viste. La promozione di questo film suggeriva una performance alla Julie Andrews in Victor Victoria o, comunque, un’interpretazione affascinante alla Marlene Dietrich. Niente di più lontano dalla realtà.
Glenn Close interpreta il suo ruolo con la compostezza di una Sarah Bernardt vestita da Amleto e la disperazione impotente di una Hilary Swank in Boys don’t cry.
Il cognome della protagonista Glenn-Albert è il primo elemento che salta all’occhio e spiega come mai il titolo si limiti ad un nome e cognome.
Nello slang britannico, la parola nob può significare tante cose (tutte sgradevoli).
Nob come aristocratico (contrazione della parola noble) descrive bene l’ambiente vittoriano ed opulento nel quale si muove il Glenn-Albert della prima parte del film, maggiordomo attento, puntuale, sicuro di sé, professionale.
Tutte qualità che si sgretolano con lo svolgersi della pellicola. E’ la maschera che perde i pezzi e mostra, nel finale, una donna travestita ingenua, fragile, inetta, irrazionale, come fosse un altro personaggio.
Nob come testa può alludere alla razionalità lineare, ripetitiva ed un po’ stucchevole della Dublino del XIX secolo. Raziocinio, positivismo e borghesia ricca ed affermata.
E’ il periodo storico delle traversate oceaniche, delle grandi praterie americane, dei capitali.
Il film, però, focalizza solo sui sogni piccoli, di piccolo borghesi o proletari che raggranellano piccole somme per realizzare piccole imprese, in piccole botteghe adiacenti a piccole case.
Nob come cazzo, allusione al travestitismo spacciato per escamotage furbo piuttosto che come necessità legata ad identità che non hanno posto nel casellario sociale dell’epoca (e nemmeno in quello odierno se è per questo). Il film è ambientato in un’epoca in cui una donna che ama altre donne è un uomo mancato e come tale deve abbigliarsi ed atteggiarsi (stereotipo vivo ancora oggi).
Nob come scopata, quella eterosessuale, un po’ squallida e priva d’erotismo.
La sessualità di Glenn-Nobbs non c’è. E’ l’Io robot di Asimov, una macchina rivestita di gomma. Anche la relazione lesbica dell’altra travestita del film (l’Hubert Page interpretato dall’attrice Janet McTeer, candidata all’Oscar come migliore attrice non protagonista proprio per questo ruolo) è delicata ed ammantata di amore appena suggerito.
Nob come qualcosa di fastidioso o che fa schifo ed il fastidio c’è. E’ quello di vedere un’ennesima pellicola che ritrae donne omosessuali, mai per scelta, mai felici, paralizzate dal terrore di essere smascherate. Donne violentate che cercano sicurezza nel cancellare se stesse (Glenn-Albert). Donne che si travestono per nascondere l’omicidio di un marito violento, che ne indossano i vestiti, rubandogli la vita ed l’identità (McTeer-Hubert). Travestite mai per scelta, solo per tragica necessità.
Donne travestite da uomo che si vestono da donne (in un inutile altalenare di gender diversi) per sentirsi libere. Penosa la Glenn-Albert, che corre gioiosa ed inciampa nella gonna, primo presagio d’un finale tragico.
E’ una storia già vista quella de’ “le donne omosessuali sono destinate al dolore, alla solitudine, al fallimento ed alla morte”. Dimenticano facilmente l’amore perduto e sono pronte, come esseri rapaci, a lanciarsi all’inseguimento di ogni gonnella compiacente (è esattamente quello che fa McTeer-Hubert, dopo aver perso la moglie adorata in un’epidemia di tifo e l’amico Glenn-Albert, per una tragica fatalità).
Albert dai mille significati, quindi. L’ennesimo film a tematica LGBT che non vale la pena di vedere. Lascia l’amaro in bocca, come fanno certi romanzi della Winterson, quando ribadiscono che non può mai esserci un lieto fine per le donne che amano altre donne.