Paura e desiderio – Fear and Desire

Paura e desiderio - Fear and Desire

Regia: Stanley Kubrick
Anno: 1953

Quattro soldati di un paese sconosciuto si trovano sperduti in una foresta senza nome. Per ritornare dai commilitoni, debbono risalire il corso di un fiume. Tra orrori e ombre di un nemico invisibile, sarà una lenta discesa in oscuri meandri dell’esistenza e feroci bestialità.

“Buona la prima” non è mai stato il mantra di Stanley Kubrick, perfezionista maniacale. Certo non poteva far eccezione il suo debutto cinematografico, questo Paura e Desiderio (“Fear and Desire”) filmato a soli 24 anni, distribuito e poi rinnegato, con il regista che ne ordinò la completa cancellazione.

Fortuna ha voluto che un negativo sia scampato alla distruzione, permettendo il restauro digitale della pellicola (ad opera della Biblioteca del Congresso), ora proposta per la prima volta nelle sale italiane.

Occasione per apprezzare uno dei pochi non-capolavori di Kubrick. Il quale certamente sognava un folgorante esordio alla Quarto Potere (“Citizen Kane”, Orson Welles, 1941), ma pagò invece lo scotto dell’inesperienza e di budget risicati.

In Paura e Desiderio non serve quindi affannarsi a cercare la perfezione formale, le geometrie e la potenza visiva dei capolavori della maturità (Arancia Meccanica, “A Clockwork Orange”, 1971, Shining, 1980, Full Metal Jacket, 1987, Eyes Wide Shut, 1999). L’esordio di Kubrick conta soprattutto perché racchiude, ad uno stadio embrionale, temi, figure, una visione del mondo e dell’uomo poi sviluppati in tutta la sua filmografia.

La voice over dell’incipit è già una radicale dichiarazione di poetica: “C’è una guerra in questa foresta. Non una guerra che è stata combattuta, o una che lo sarà. Solamente una guerra”. Una guerra di un hic et nunc indefinibile. Una qualsiasi, una delle tante possibili o (ir)realizzate. Quindi tutte e nessuna.

Conta l’essenza, il concetto assoluto dell’innata aggressività umana. Ogni volta, modulato su uno sfondo diverso (la guerra di trincea in Orizzonti di gloria, “Paths of Glory”, 1957, il Vietnam di Full Metal Jacket, 1987).

Kubrick, fin da subito, situa dunque il suo cinema, e tutto ciò che in esso riversa, “al di fuori del tempo e della storia”, come spiega il narratore parlando della foresta. Al di là del bene e del male, sgomberato il campo da giudizi e moralismi buonisti, ciò che resta sono le forme, immortali e immutabili, della paura e del dubbio. I fantasmi del desiderio e della (pulsione di) morte. I frementi e insopprimibili istinti (auto)distruttivi che muovono l’uomo e il corso della Storia, esaminati dal regista con lucida razionalità.

Parafrasando la battuta che il custode/fantasma Grady rivolgerà allo sbaccalito Jack Torrance in Shining, nella celebre sequenza dei bagni, Kubrick fin dall’esordio si premura di affermare come il suo cinema “sia qui da sempre”, e sempre ritorni uguale a se stesso.

Senza inizio e fine. Senza un prima e un dopo. Solo, l’eterna ricomparsa sulla scena del mondo, in una circolarità impazzita, della follia umana, degli istinti di sopraffazione dell’animale-uomo (la scimmia di 2001: Odissea nello spazio, “2001: A Space Odissey”, 1968) o dell’uomo-bestia (Jack Torrance, l’ultraviolento Alex De Large di Arancia Meccanica, le maschere belluine nell’orgia di Eyes Wide Shut).

Di cui costituisce esempio, in Paura e Desiderio, lo schizofrenico Sidney, in preda al delirio mentre morde la terra e fiuta il sangue della donna assassinata. O il sergente Mac, selvaggio rabbioso che “sbrana” i nemici ingozzandosi del loro cibo, cercando lo scontro finale come ultima e unica ragione di vita.

Anche chi non c’è l’ha nel sangue deve addestrarsi alla violenza, se non vuole soccombere (emblematico il dialogo finale tra il soldato Fletcher e il tenente Corby: “Non mi sento portato per questo”. “Nemmeno io, è solamente qualcosa che facciamo per non morire subito”).

Tralasciata ogni retorica, emerge l’uomo come essere votato al soddisfacimento dei bisogni più ancestrali, allo spietato dominio sul prossimo (la parola “civilizzazione” più volte ripetuta suona paradossale).

Uomo-isola(to) in un’isola-mondo (la foresta), arcipelago di solitudini disperse (“I ghiacciai si sono sciolti e ora siamo tutti isole, parti del mondo fatte solo di isole” dice Corby ribaltando una frase di John Donne).

Simbolica geografia della perdizione che Kubrick ritroverà più volte. Si pensi alla Parris Island di Full Metal Jacket. O all’isolotto alberato nell’incipit di Shining, con il maggiolone di Jack Torrance che attraversa la fitta foresta come i quattro soldati.

Itinerari di smarrimento, selve oscure in cui addentrarsi e non fare più ritorno. Approdi terminali di un percorso evolutivo per oltrepassare i “confini personali” della propria isola (le regole della convivenza civile). Per abbracciare la natura amorale, violenta e luttuosa dell’esistenza.

Guardando la (propria) morte in faccia (lo sguardo del tenente Corby che si specchia in quello del sosia cadavere). Per scoprire, come accadrà molti anni più tardi al soldato Joker di Full Metal Jacket, che “i morti sanno solo una cosa: che è meglio essere vivi”.