Regia: Germano Maccioni
Anno: 2013
Si può rimanere Fedeli alla Linea?
Da punk filosovietico a fervente cattolico votato ad un’esistenza ascetica e bucolica. Un percorso insolito quello di Giovanni Lindo Ferretti, ex cantante dei CCCP poi CSI e PGR, nonché idolo di intere generazioni post-anni ’80, e che gli è costato aspre contestazioni e accuse di tradimento.
Alle diverse tesi formulate, e circolate, sulla sua metamorfosi lui non ha mai voluto dar seguito, lasciando ai (furiosi e delusi) fan l’inutile pratica di arrovellarsi il cervello. Ma finalmente per qualcuno l’estenuante ricerca di un senso potrà dirsi conclusa. Nel film-documentario Fedele alla Linea realizzato da Germano Maccioni, prodotto da Articolture in collaborazione con Apapaja e distribuito, dallo scorso 10 maggio, in circuiti più o meno convenzionali (oltre che nelle sale cinematografiche verrà proiettato in teatri o in occasioni di feste e festival), viene ricostruito l’arco esistenziale di Ferretti.
Un viaggio fisico ed interiore che lo ha ricondotto a Cerreto d’Alpi, luogo di nascita e in cui ha scelto dopo tanti anni di tornare a vivere, passando attraverso le esperienze berlinesi negli anni del Muro e una lunga permanenza in Mongolia.
Non si tratta però di un film biografico, come ci tiene a precisare il regista, ma di un racconto intimo e per certi versi pastorale. Il lavoro è frutto infatti di una sorta di compromesso tra regista e attore protagonista: mentre Ferretti avrebbe voluto realizzare un’opera equestre, una vera e propria Saga ispirata al teatro barbarico con protagonisti assoluti i cavalli (la sua recente passione), Maccioni gli ha controproposto un documentario in cui il soggetto equino fosse il perno attorno al quale intrecciare i ricordi di una vita. “Giovanni – ha spiegato il regista durante una delle prime proiezioni lo scorso 11 maggio al cinema Anteo di Milano – voleva fare un film fatto al 99% di cavalli, con un 1% di Ferretti. Io ho invertito il rapporto, anche se i cavalli sono il filo rosso e l’elemento metaforico che tiene insieme il tutto.”
Il risultato è un prodotto originale e ben montato, che dosa perfettamente tutti gli ingredienti, apparentemente contrastanti. Si passa senza stonatura dall’irruenza, visiva e sonora, di spezzoni dei concerti dei CCCP, tratti da materiali di archivio, alla quiete dell’alto appennino reggiano e del casolare in cui l’artista trascorre le proprie giornate, impegnato perlopiù alla cura degli animali. Ed è proprio dalla sua abitazione che Ferretti si lascia andare ad un racconto che ha i toni della conversazione privata, quasi un dialogo padre-figlio, e che spazia, senza alcun filo cronologico, dal resoconto della propria quotidianità ai ricordi di una vita, segnata dalla sregolatezza e da un rapporto costante con la malattia. Ma soprattutto da una ricerca spasmodica della verità o semplicemente di valori in cui identificarsi e su cui riversare il senso di un’esistenza.
Che sia approdato o meno ad una dimensione ideale poco conta, ciò che emerge dalle sue confessioni è una continuità di pensiero, dettata dalla necessità, non priva di tormento, di interrogarsi e di trovare di volta in volta una nuova fede da abbracciare. D’altra parte se ci si stacca da bandiere ideologiche e definizioni preconfezionate, la fedeltà ad una linea può anche essere interpretata come la ripetizione di un modus operandi (e soprattutto pensandi) con cui ci si approccia alla vita.