Regia: Andrew Niccol
Anno: 2013
Nel futuro, la Terra è invasa da anime aliene che si insinuano nel corpo degli umani impadronendosi delle loro coscienze, cancellando pulsioni aggressive e inclinazioni allo scontro per diffondere pace e armonia controllate. Solo un gruppo di ribelli resiste alla conquista nascosto nei sotterranei di un deserto. Un’anima detta Viandante è inviata ad abitare il corpo della giovane Melanie, ma ricordi, sensazioni e desideri della ragazza restano vivi e fanno resistenza, costringendo l’alieno a rinnegare la sua razza e a scoprire forza e bontà dei sentimenti umani.
Il cinema del neozelandese Andrew Niccol (i film sci-fi scritti e diretti, ma anche quelli soltanto sceneggiati o ideati, come The Truman Show, 1998, di Peter Weir e The Terminal, 2004, di Steven Spielberg) è segnato da un’immagine che, pur sotto varie forme e differenti declinazioni, ritorna con continuità: quella di un corpo votato/costretto al martirio, all’auto-annullamento. Quasi sempre una vittima sacrificale per la salvezza e l’affermazione di un altro corpo, di natura e caratteristiche diverse.
Nell’esordio di Gattaca – La porta dell’universo (1997), si tratta del corpo “sostituito” del paraplegico Jerome Morrow, sano ma immobilizzato, occultato e auto-recluso, che dona sembianze, liquidi, sangue, Dna e lembi di pelle al corpo disfunzionale del non valido Vincent, per favorirne la scalata nella società dei geneticamente validi. In The Truman Show il corpo e l’intera esistenza del protagonista vengono immolati sull’altare dello spettacolo, trasformati in fiction permanente.
In S1m0ne (2002) è il geniale programmatore informatico a consacrare se stesso alla creazione di un idolo digitale. Il suo corpo si ammala e deperisce (il tumore all’occhio, la mutilazione dello sguardo) a favore della nascita di una visione nuova, un’immagine sintetica, un corpo virtuale.
In In Time (2011) è il corpo immortale e a-temporale del ricco individuo ad auto-eliminarsi. Trasferendo tutto il suo tempo-denaro al corpo caduco, perennemente in scadenza, del giovane Will Salas. Mors tua vita mea, si potrebbe riassumere citando il motto latino evocato in Gattaca.
Si arriva così fino a The Host, dove il corpo sacrificale di Melanie è usato come involucro per l’incubazione dell’anima della Viandante. Qui succede anche il processo inverso, con lo spirito alieno che viene estratto per ridare (letteralmente) corpo a emozioni e passioni mai svanite (l’amore di Melanie per Jared e il fratellino Jamie).
Niccol, adattando il romanzo L’ospite di Stephenie Meyer (autrice della saga di Twilight), tenta di proseguire il discorso su incastri, scambi e sovrapposizioni tra corpi e identità incerte, fluide, mutevoli e inevitabilmente sfuggenti, vera cifra stilistico-tematica della science fiction umanista e introspettiva tipica del regista.
Le due figure agli antipodi, umana e aliena, si assommano, stratificandosi e confluendo nel medesimo corpo. Entità com(presenti) ma indistinguibili. Un corpo che si fa voice over interiore (Melanie) e uno spirito che si fa carne spolpata di afflato vitale (Viandante).
Per Niccol lo vista è un senso fallace, l’atto del guardare/vedere sempre ambiguo e ingannevole (“Vedono soltanto te, non vedono me” spiega la voce di Melanie quando Viandante sta per essere giustiziata da alcuni ribelli). Siamo incapaci di riconoscere ciò che pur ci sta davanti agli occhi. Come Jared, che inizialmente di fronte a Melanie/Viandante vede solo un corpo estraneo, svuotato. Un corpo-residuo che certifica una morte ineluttabile (la volontà e i sentimenti della ragazza che crede svaniti per sempre).
Eppure non riesce a staccarsi da quel corpo, dalla sua immagine superficiale. A superarne la pesantezza immanente, la verità intrinseca. Continuando ad esserne attratto, a sognarlo, baciarlo e toccarlo, riconoscendolo come ultimo rimasuglio di un desiderio passionale perduto. Senza così accorgersi di come questo stia nascosto in profondità, nel silenzio assordante delle anticamere imperscrutabili della coscienza.
Zone che esplora invece il giovane Ian. Guardando oltre le abnormi e luminose pupille azzurre di Melanie. Riuscendo a scindere il corpo-contenitore della ragazza dall’animo generoso di Wanda (ora l’alieno ha un nome, un’identità precisa, come testimonia la sequenza in soggettiva nel finale ), di cui presto si innamora.
Jared e Ian osservano lo stesso corpo scoprendo due cose diverse: il primo una tragica assenza (di Melanie), il secondo un’insospettabile presenza affettuosa (Wanda).
Un grande dispiegamento di tematiche che tuttavia non riesce mai a trovare approfondimento e toni adeguati. The Host è un’occasione sprecata per un regista talentuoso come Niccol (probabilmente limitato dall’ingerenza della Meyer, che figura tra i produttori), che si perde fra mielosi tentennamenti amorosi da teen-movie scolastico spruzzati di qualche (banale) prurito soprannaturale.
Nessuna invenzione di regia, mai così piatta e convenzionale, attori svogliati (uno spaesato William Hurt, si salva solo la promettente Saoirse Ronan, la bambina di Amabili resti, “The Lovely Bones”, 2009, di Peter Jackson).
Un film davvero troppo scarno, senz’anima, quasi fosse anche lui posseduto da uno spirito alieno che ne abbia soppresso potenzialità e slanci creativi.