Regia: Ruben Fleischer
Anno: 2013
Los Angeles, 1949. Lo spietato boss Mickey Cohen, ebreo newyorkese di origini ucraine ed ex pugile, spadroneggia incontrastato sulla città, tra racket di prostitute, eroina e scommesse illegali. Tra polizia e pubbliche autorità asservite e cittadini inermi, la corruzione dilaga ad ogni livello. Solo il capo dei federali decide di alzare la testa, affidando al risoluto sergente O’Mara una pericolosa missione: formare una squadra di temerari poliziotti al di sopra della legge, che combatta senza tregua il dominio di Cohen.
È da qualche tempo che il cinema americano riscopre interesse per il gangster movie di impronta retrò. Un gangster revival recentemente avviato dal Nemico Pubblico (“Public Enemies”, 2009) di Michael Mann, proseguito con Lawless (2012) di John Hillcoat e che ora presenta questo Gangster Squad del semisconosciuto Ruben Fleischer (regista della zombi-comedy Benvenuti a Zombieland, “Zombieland”, 2009, già un piccolo cult negli Usa).
Eccoci allora catapultati nella Los Angeles martoriata e sfavillante del secondo dopoguerra, sedici anni dopo L.A. Confidential (1997) di Curtis Hanson.
Malgrado il contesto richiami un preciso immaginario fatto di trame oscure, crimini, lotte intestine e violenze urbane, tipico di letteratura e cinema hard-boiled, il film appare monocorde, senza spessore e povero di sfumature. Nessuna traccia di atmosfere torbide e fumose. Di personaggi ombrosi, ambigui, enigmatici. Identità sfuggenti e inafferrabili. Tutti ingredienti caratteristici di un poliziesco-noir metropolitano.
Si semplifica in modo superficiale. Messinscena troppo carica, che non crea atmosfere suggestive ma si fa banale inventario pop, accumulo di modelli(ni), spazi, arredamenti, costumi e oggettistica noir.
Con scenografie appariscenti, luci al neon, tinte patinate e vernici lucide. Uno sfondo da cartolina (come quelle dei titoli di coda). Un effetto quasi da manifesto pubblicitario vintage. Rafforzato da una fotografia ingiallita, virata verso un beige-marroncino arrugginito (routine per il direttore premio Oscar Dion Beebe, che già aveva fotografato la L.A. notturna di Collateral, 2004, Michael Mann). Scenario simile a una locandina disegnata. Del resto, siamo nella cornice di Hollywood Land, terra di illusioni, idoli e false promesse, sogni e aspirazioni mancate. Il luogo della finzione, del falso, del feticcio artificiale.
Fin dall’incipit si sente tutta la natura artefatta della storia (slow motion, bullet time, accelerato e frame-stop sono usati sistematicamente). La presenza (pesantezza?) del mezzo cinematografico, con il rumore di scorrimento della pellicola, le immagini di un vecchio proiettore e del rettangolo bianco di uno schermo, su cui subito compaiono il titolo del film e la cine-storia di Mickey Cohen.
Sono gli stessi personaggi a percepirsi come corpi-simulacri significanti. Jerry, l’agente interpretato da Ryan Gosling, passa in rassegna i membri del clan criminale definendoli tutti “attori che è difficile riconoscere senza il libretto in sala”. Gli agenti assaltano il casinò nei panni di banditi western, chiamano “comparse” alcuni individui camuffati da indiani.
È tutto un gran teatro, un circo impazzito, uno stato di guerra perenne in cui si gioca a guardie e ladri da sempre. Per occupare e dominare con la forza il “selvaggio Ovest”, scacciando il nemico (prima gli indiani, poi i messicani, ora il crimine organizzato, come riassume il federale Nick Nolte) in nome del “progresso” e del “futuro”, come ama ripetere Cohen nei suoi deliri di onnipotenza.
Tanti i primi piani dei volti puliti e stilizzati, come tratteggiati a china o modellati dal rendering della computer grafica (non a caso l’estetica del film ricorda da vicino quella del videogame della Rockstar L.A. Noire, 2011). I personaggi mancano però di qualsiasi profondità e scavo psicologico, appiattiti in un serie di cliché (usurate le situazioni-tipo alla “sto mettendo insieme una squadra…”).
Così è per John O’Mara/Josh Brolin: buono ma ruvido poliziotto di tempra e muscoli, uomo niente chiacchiere e senza distintivo, perfetto american hero con senso del dovere e dell’onore. Per Jerry Wooters: un giovane Humphrey Bogart ripulito, solo meno stropicciato e spigoloso, belloccio seduttore con il gusto per la battuta, che snocciola cinismo e savoir-faire con la femme fatale di turno.
E per Max Kennard/Robert Patrick: il vecchio cowboy in pensione dai metodi spicci, cacciatore di criminali, fedele solo alla sua infallibile Colt. Tutti incorruttibili americani orgogliosi, seduti in veranda per un goccetto o in giardino per il barbecue. Ferite dell’animo e contraddizioni non abitano qui.
Presenza magnetica è certamente il Mickey Cohen di Sean Penn (attore eccelso che però esaspera e caricaturizza il personaggio seguendo il tono generale): occhi scombussolati, iniettati di cattiveria letale. Viso ammaccato e schiacciato come quello di un bulldog ringhiante, segnato dalle cicatrici di chi ha imparato dolorosamente ad incassare, prima di azzannare il nemico con ferocia.
Gangster movie dal cast di alto livello, che riesce ad essere avvincente in qualche sequenza mozzafiato (l’inseguimento, i rituali di violenza, la sparatoria finale) e in qualche dialogo azzeccato. Ma in definitiva non da mai l’impressione di staccarsi dalla struttura di giocattolone videoludico. Un’occasione sprecata.
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