Regia: Peter Strickland
Anno: 2012
Metacinema. Con questa espressione il gergo specialistico è solito designare quel tipo di cinema il cui oggetto è il cinema stesso, quelle pellicole (metafilm) nelle quali a essere messo in rappresentazione è il farsi del film. Disvelando i segreti della magia filmica, mostrando le procedure tecniche, linguistiche e drammaturgiche, questo genere di testi induce riflessioni e cambi di prospettiva aventi ad oggetto il cinema e il suo linguaggio.
In questo risiede il senso principale di quest’opera di Strickland (Katalin Varga, 2009), che ci offre in visione un ordito complesso e raffinato, in cui la pregnanza e la densità linguistiche si sostituiscono ai facili colpi di scena, alla poetica della “paura ostentata”, allo splatter a buon mercato.
Toby Edward Heslewood Jones, fresco di nomination al Golden Globe Award per l’interpretazione di sir Alfred Hitchcock resa in The Girl (un film tv diretto da Julian Jarrold per la tv britannica nel 2012) sbarca al Berberian Sound Studio vestendo i panni di Gilderoy, un pavido e manieratissimo sound-supervisor inglese ingaggiato da una produzione italiana per realizzare il sound-design di un film horror (l’interpretazione gli consentirà di vincere un BIFA award per la miglior interpretazione in un film indipendente britannico e una nomination per il London Film Critics’ Circle Award come miglior attore britannico dell’anno).
Jones ci regala una costruzione attorica di grande pregio, parca di parole e attenta alle variazioni minime della micromimica, in grado di restituirci l’introspettività del personaggio in maniera garbata ma sempre ricca di trovate, espressioni strategiche e argute, posture corporee pertinenti e misurate.
La vicenda si colloca nel 1976 (a un anno di distanza dall’uscita di Profondo Rosso di Dario Argento, che era del ’75, appunto), nel bel mezzo dell’età dell’oro del cosiddetto horror all’italiana e ruota intorno alla post-sincronizzazione della pista del sonoro di Il Vortice Equestre, un B-movie trasudante sesso e violenza diretto da Giancarlo Santini, regista e uomo sordido, millantatore e gozzovigliatore, certamente più aduso alla frequentazione del gentil sesso che non a quella dell’arte. La parte è sostenuta in maniera mediamente convincente da Antonio Mancino la cui performance attorica risente (solo a tratti, per fortuna nostra e sua) della riemersione di alcuni atteggiamenti da Fiction all’italiana dovuti ai precedenti professionali dell’attore (Tra il 2006 e il 2007 è nel cast della serie tv La squadra 8, ideata da Wayne Doyle, Mauro Casiraghi e Chris Mc Court; Tra il 2008 e il 2010 recita in Un Posto Al Sole, la soap ideata da Wayne Doyle, Gino Ventriglia e Adam Bowen).
Gilderoy, che proviene da tranquille produzioni di tipo documentaristico su fauna e flora della campagna inglese, con la sua irreprensibile etica del lavoro, con la sua cordialità impeccabile e britannicamente distaccata, soffrirà non poco nel ritrovarsi proiettato in una dimensione dell’esistente nella quale la maschera della professionalità nasconde volti ferocemente deformati da brame di basso rango, come quella sessuale o quella di tipo economico-cumulativo.
Certo è che l’atmosfera malsana che promana dalla pellicola di Santini impregna come un miasma l’ambiente circostante e finirà col contaminare anche l’anima bella dell’introverso sound-designer che nel corso del film andrà via perdendo contatto con la propria dimensione psicologica consueta, fino al punto di non poter più distinguere con certezza i contorni dell’esistente, i confini della finzione filmica. Gli ultimi trenta, forse quaranta minuti, del film di Strickland, infatti, sono consacrati a un onirismo claustrofobico e insalubre in cui l’andamento della narrazione ricalca fedelmente i deragliamenti della consapevolezza del protagonista.
Lo spettatore viene gradatamente messo nella posizione di non poter più discernere agevolmente cosa realmente accada nella diegesi, cosa sia solamente frutto dell’immaginazione ormai patologizzata di Gilderoy e cosa invece faccia effettivamente parte del film di Santini.
L’anima più nera dello studio è il personaggio di Francesco Coraggio, il disumano produttore di Il Vortice Equestre interpretato da Cosimo Fusco (Angeli E Demoni, regia di Ron Howard, 2009; The Card Player–Il Cartaio, regia di Dario Argento, 2004; Friends, serie tv statunitense ideata da David Crane e Marta Kauffman nella quale compare i quattro episodi tra il ’94 e il ’95) che non esita a sottoporre i propri collaboratori, Gilderoy in testa, a ogni sorta di vessazione psichica e fisica.
Rispettare i tempi di lavorazione, poiché il tempo è denaro, risparmiare sugli investimenti, garantire capitale e profitto, sono gli imperativi categorici su cui Francesco basa il proprio lavoro e l’esistenza tutta, senza che alcuno scrupolo di ordine etico o artistico intervenga a turbare in lui questa cristallina morale del negativo.
Il personaggio, come si intuisce, ha natura iperbolica, e si incarica di portare sullo schermo una stilizzazione, a volte forse troppo lineare ma oggettivamente efficace, della divorante passione per il guadagno che spesso affligge gli uomini di cinema minandone la morale, insozzandone l’anima.
La parte si giova certo del perfetto physique du rôle da cattivo dell’attore materano che ci regala sguardi intensi di pura perfidia e primi piani scolpiti da credibile ferocia.
La sua performance recitativa, che pure in sporadici momenti difetta di naturalezza e credibilità, trova uno dei suoi punti forza nell’inglese romanizzato e approssimativo che adotta per comunicare con Gilderoy e che contribuisce non poco a stigmatizare ulteriormente la grettezza del personaggio.
Non è difficile intuire come tra il personaggio interpretato da Jones e quello affidato a Fusco si instauri una relazione non dialettica e oppositiva, del tipo protagonista-antagonista che sul finire de film sembra in qualche modo decretare la sconfitta del positivo, dal momento che vediamo il pacatissimo inglese cedere all’ira, talvolta al sadismo ( strazierà le orecchie di una doppiatrice con suoni lancinanti pur di ottenere da lei credibili urla di dolore).
Tra gli attori di contorno spicca certamente Fatma Mohamed che già aveva un ruolo di primo piano nel precedente film di Strickland, Katalin Varga del 2009, e che qua interpreta Silvia, una delle doppiatrici continuamente vilipese da Francesco ed ennesima vittima del mal celato satirismo del regista Santini. E’ questa l’unica figura del cast che offra a Gilderoy una qualche forma di soldarietà umana tentando di metterlo in guardia da subito dalle insidie occulte dell’ambiente del Berberian. L’attrice con asciuttezza di modi e senza sbavature regge la propria parte in maniera convincente e distesa, accorata e sofferta e, a giudizio di scrive, ottiene uno degli esiti più convincenti della pellicola (Jones a parte, ovviamente).
Si è fatto un gran parlare, di recente, di Sonia Sotiropoulou, bond girl al fianco di Daniel Craig in Skyfall (regia di Sam Mendes, 2012) l’ultima avventura dell’agente segreto in forza ai servizi britannici ambientata in Turchia. La bella greca, che sino ad ora aveva lavorato solamente in alcune produzioni minori in patria, nel film oggetto della nostra analisi interpreta Elena, segretaria del Berberian Sound Studio, che purtroppo al di là di una bellezza a dir poco rapinosa ha ben poco da offrire in quanto a costruzione attorica, naturalezza di registro e presenza nella parte.
Volendo elencare i molteplici motivi di interesse insiti in questo lavoro inizierei parlando proprio di quella ricchezza metalinguistica cui si accennava in apertura.
La riflessione sul linguaggio cinematografico passa innanzitutto per la rievocazione di atmosfere e pratiche tecnico-linguistiche di un preciso momento storico del nostro cinema nazionale: la stagione gloriosa dei vari Bava (Mario, il padre, maestro indiscusso dell’horror italico ha fissato i caposaldi di genere in opere citatissime anche da registi quali Tim Burton, Scorsese, Coppola Cimino e Tarantino come La maschera del demonio, del 1960; I tre volti della paura, del ’63; 6 donne per l’assassino, del ’64; mentre il figlio, Lamberto si è comunque messo positivamente in mostra con Demoni, del ’85 e Macabro, dell’84), Fulci ( Zombi 2, del 1979; Paura nella città dei morti viventi, dell’80; Quella villa accanto al cimitero, del 1980), Freda (I Vampiri,1957; L’orribile segreto del dr. Hichock, del 1962) e, ovviamente, del primissimo Dario Argento, che nel ’69 aveva diretto L’Uccello dalle Piume Di Cristallo per poi regalarci, nel ’71 Il Gatto A Nove Code e Quattro Mosche Di Velluto Grigio (Profondo Rosso, lo abbiamo già detto è del ’75, mentre Suspiria arriverà nel ’77).
Ritroviamo messe in scena pratiche e tecniche, normalmente invisibili nel prodotto filmico finito, proprie di un’epoca del fare cinema: vediamo quelli che in italiano vengono definiti bollettini del fonico ovvero quei tabulati che indicano con puntualità rumori, suoni e il timing del loro inserimento nel testo, possiamo osservare il funzionamento degli ingombranti registratori a bobina che gli appassionati della mia generazione hanno potuto ammirare solo in foto d’epoca, i vecchi mixer analogici, scopriamo le tecniche di microfonazione e di produzione di effetti sonori in tempo reale (stupende le scene in cui i rumori di crani spappolati e coltellate varie vengono prodotti seviziando cocomeri e ortaggi, o quella in cui il suono delle carni martoriate da tizzoni roventi di una delle streghe viene riprodotto facendo sfrigolare acqua fresca in una padella incandescente).
Ancora più interessante, forse, è la maniera con cui Strickland proietta personaggi e spettatori all’interno dei film di quel periodo, ricreandone il tenore emotivo.
Quelle atmosfere claustrofobiche e oscure, quel senso di diffusa minaccia che spirava come uno zefiro mortale dai film di Bava, Fulci e compagni ci stringe la gola senza che venga mostrato nemmeno un fotogramma dai contenuti orrorifici, senza cioè che si passi attraverso la fase di visualizzazione di quegli orrori, ma tutto includendo nella rappresentazione sonora.
E’ solamente attraverso un’intreccio di suoni ripugnanti, di vocalizzazioni morbose e rumori sinistri che il regista inglese riesce a indurre in chi guarda il film la figurativizzazione immaginifica dell’orrido e del terrificante, ed è sempre esclusivamente attraverso il suo sound-design che ci fa vedere (meglio audio-vedere) Il Vortice Equestre, di cui viene mostrata in maniera visiva solo la sigla iniziale con i titoli di testa.
I cinefili della prima ora sapranno certamente apprezzare le minute particolarità di linguaggio che arricchiscono questo testo, come la bella citazione-omaggio a Rope, il film di Alfred Hitchcock uscito nel ’48 ( in Italia Nodo Alla Gola) che ritroviamo verso il ventinovesimo minuto del lavoro di Strickland.
Gilderoy, che era seduto a un banco di missaggio, si alza e avanza verso l’obiettivo della macchina da presa sino a oscurarlo completamente, creando un nero identico a quello che interviene negli stacchi di montaggio. La sequenza successiva riparte dal nero, ma la direzione del moto è opposta: l’attore inizialmente occlude con la schiena l’obiettivo e da questo si allontana consentendo ai nostri occhi di leggere il contenuto dell’inquadratura man mano che il suo corpo, avanzando, libera nuove porzioni di campo visivo.
Ricordiamo al lettore che il film di Hitchcock era stato interamente girato in piano sequenza e che questa modalità di stacco era stata introdotta dal regista per nascondere allo spettatore le interruzioni del flusso di ripresa che era costretto a fare quando, terminata la pellicola contenuta in una bobina (pizza), era necessario sospendere le riprese per sostituirla con una nuova. Questo peculiare stratagemma linguistico contribuì non poco a definire lo stile di questo film e a renderlo una sorta di leggenda tra gli addetti ai lavori.
Il fatto che Strickland se ne serva in maniera, per così dire gratuita, cioè non imposta dalle necessità del testo o della narrazione, ci porta a credere al suo valore celebrativo, di omaggio al cinema di un maestro che ancora oggi può essere annoverato tra i fondatori della grammatica del cinema horror e, secondo il parere di chi scrive, del cinema moderno tout court.
L’immagine di Strickland si addensa di contenuti iconici e cromatismi che trascendono senza mezze misure la mera resa dell’esistente per approdare ad esiti di marca espressionista, da cui emergono significazioni ulteriori, rinvii sensoriali inediti che di fatto impongono il punto di vista dell’autore sul reale. Sfocature improvvise, intermezzi di montaggio ipercinecitici e onirici, accesi rossi di provenienza ematica, neri misteriosi che sembrano inghiottire volti e corpi .
È un’universo del visivo che volutamente veicola una sotterranea inquietudine e che spesso indulge su dettagli e primi piani delle atroci violenze a cui i vari generi ortofrutticoli utilizzati per la produzione degli effetti sonori vengono sottoposti in fase di lavorazione. Spargimenti di polpe e succhi, estirpazioni brutali di fogliame e bucce divengono, attraverso i rumori che ne scaturiscono, vere e proprie metonimie visive delle atrocità cui assisteremmo se potessimo vedere quanto accade sullo schermo, dando vita a una inedita declinazione dello splatter, che potremmo definire splatter vegetale il cui esito disturbante non è inferiore a quello del genere tradizionale, sebbene proceda attraverso un complesso sistema di associazioni mentali piuttosto che mostrando in maniera diretta il sangue e la violenza.
Volendo tirare le somme direi che si tratta di un film di grande pregio dal punto di vista stilistico, che assoggetta il proprio linguaggio a usi inconsueti e di non facile decrittazione a una prima visione. Strickland si dimostra regista ambizioso e inflessibile nella manifestazione di una volontà autoriale forte, il cui linguaggio è certamente più orientato verso l’espressione della propria sfera individuale che non verso la comunicazione.
A dimostrazione di ciò, infatti, ritroviamo una trama esigua, in cui, di fatto, succede poco e raccontata in maniera tale da farci dubitare, in fin dei conti, che quel poco sia poi effettivamente accaduto. Certamente ci troviamo di fronte a un opera non concepita per riscuotere successi eclatanti al botteghino, lontana da qualsivoglia eccesso spettacolaristico, e capace di scontentare tutti coloro che ritengono la linearità narrativa e la comprensione immediata del testo filmico valori irinunciabili.
Sconsigliato agli amanti dell’horror a buon mercato, fatto di profusione di sangue, sbudellamenti e mostri.
Assolutamente da vedere per gli amanti del cinema visionario e a elevato peso specifico.
Buona audio-visione.