Regia: Robert Redford
Anno: 2012
La sua ultima fatica da regista risale al 2010 con The Conspirator, pellicola in costume sulla vita di Mary Suratt, complice di John Wilkes Booth nell’assassinio del Presidente Lincoln e prima donna ad essere condannata a morte dal Governo Federale americano.
Oggi Robert Redford, classe 1937, torna al cinema con un film vecchia scuola, potente, di contenuto. Completamente focalizzato sul tema della Verità. Quella verità che, da attore e da regista, ha cercato e perseguito con tenacia in moltissimi dei suoi film.
Narrando storie di uomini più o meno straordinari che si sono trovati al posto giusto nel momento giusto, il biondo sex-symbol degli anni ’70, è riuscito più di una volta a stupire per la fermezza, per il coraggio e la caparbietà dei personaggi cui ha dato il volto o che ha diretto come regista.
Si pensi allo struggente Come Eravamo di S. Pollack del 1972. Alla storia di Bernstein e Woodward, i due giornalisti che hanno portato alla luce il Watergate e che, con la loro inchiesta, hanno posto fine alla presidenza Nixon in Tutti gli Uomini del Presidente (di A. Pakula, 1976). O, anche, alle vicende di Henry Brubaker, direttore del carcere di Wakefield, nell’omonimo film di S. Rosemberg del 1980.
Impegno politico, dedizione ad una causa, sacrificio e quella disillusione nello sguardo che sembrano essere un segno distintivo sono gli ingredienti per il successo dei personaggi di Redford. Così ben delineati e verosimili che gli hanno permesso di muoversi con disinvoltura tanto in ruoli drammatici, come ne La Mia Africa, di Sidney Pollack del 1985, quanto in parti più leggere. Si pensi al piacevolissimo Pericolosamente Insieme di Ivan Reitman del 1986.
Ricerca della verità dicevamo. Quella con la V maiuscola, quella capace di far vacillare governi e le vite delle persone. Sembra che Redford e la Verità stiano fra loro come la risolutezza e l’ostinazione stiano ad Eastwood. Come il grottesco a Tim Burton o l’azione e il disincanto nei confronti del mondo a Bruce Willis. Come dire: ad ognuno il suo. E l’immagine da “bravo ragazzo”, cittadino di un’America democratica, kennediana, che si batte per il trionfo dei suoi ideali e della giustizia, gli è rimasta attaccata addosso anche ora che ha superato i 75 anni. Anche dopo aver interpretato personaggi scomodi o al limite dell’antipatia. Si pensi al cinico Nathan Muir di Spy Game (di T. Scott, 2001) o al chiuso e misogino Einar Gilkyson ne Il Vento Del Perdono (di L. Hallström, 2005).
Con La Regola del Silenzio – presentato fuori concorso a Venezia lo scorso agosto – Redford torna a dirigersi come attore dai tempi di Leoni per Agnelli (2007) e lo fa portando in scena un film tratto dall’omonimo romanzo di Neil Gordon del 2004 . Un film nel quale sembrano essere racchiusi tutti gli elementi che ne hanno catatterizzato la carriera e che ha saputo egregiamente tradurre in una pellicola davvero molto intensa dove la Verità, come luce filtrata da un prisma, assume tutte le sfumature che la compongono, rendendola protagonista indiscussa. Senza contare, poi, la schiera di colleghi, giovani e meno giovani, che ha voluto al suo fianco per quest’ultimo lavoro.
La storia è quella di di Jim Grant (Redford), avvocato, adulto, vedovo e padre con un passato (e una Verità) che è obbligato a proteggere per non coinvolgere innocenti e con il quale torna a dover fare i conti.
È la storia di Ben Shephard (Shia LaBeouf – Wall Street, il denaro non dorme mai, di O. Stone, 2010) giornalista, giovane, affamato di scoop, che si imbatte nella Verità del primo e che deve fare i conti con il peso che la Verità porta con se.
È la storia di Sharon Solarz (Susan Sarandon, Dead Man Walking di T. Robbins, 1995), ex attivista politica, ex estremista radicale dei Weather Underground che in passato credeva in una Verità che oggi non è più ma che è lungi dal rinnegare.
È la storia di Ray Fuller (Stanley Tucci – Amabili Resti di P. Jackson, 2009) giornalista, capo di Ben, disilluso dalla vita e dalla Verità che non abita più l’infomazione.
È la storia di Cornelius (Terrence Howard, Crash- Contatto Fisico di P. Haggis, 2004), Agente dell’FBI che, in nome di un’altra Verità, quella della giustizia, ricerca il colpevole di un delitto compiuto tre decenni prima.
Ed è, infine, la storia di Mimi Lurie (Julie Christie, Il Dottor Zivago, di David Lean,1965), idealista incallita, in fuga dal mondo, dalle sue identità e unica custode della Verità e del segreto condiviso con Jim.
Tutte queste verità, tutte insieme, muovono il film di Redford e nelle due ore della pellicola conducono lo spettatore nella vita, nelle riflessioni e nella fuga di un uomo che in nome di un ideale è stato accusato di un grave crimine. Ma è anche un viaggio nella storia americana degli anni settanta, periodo di grande fermento politico, ideologico e sociale non solo statunitense ma mondiale. Il lato oscuro, impegnato politicamente (ed armato) di quel movimento giovanile lontano anni luce dai “fricchettoni” con i pantaloni a zampa d’elefante e le magliette psichedeliche.
Il “bravo ragazzo” sa bene come dirigere un film e come interpretare un ruolo come quello che si è scelto. Conosce il modo, la via per arrivare allo spettatore. Mescola sapientemente generi differenti, rendendo difficile dare una collocazione precisa alla pellicola. Un po’ spy story, un po’ thriller, un po’ film di denuncia. Insomma quello che ci si aspetterebbe dal Redford dei tempi migliori ma con qualche ruga in più. Forse troppe.
Forse, come tutti i grandi, ignora che il tempo passa inesorabile anche per lui e che, magari, un attore più giovane avrebbe reso meglio la figura di Jim.
Ma questo è un dettaglio trascurabile a fronte di un film molto ben realizzato, dall’impianto narrativo fluido ed interpretato magistralmente da tutti coloro che vi hanno partecipato.
Difficilmente Redford ha sbagliato una pellicola (tanto come attore che come regista) e questo, probabilmente, perchè ha avuto la fortuna di lavorare, nell’arco di quasi cinquant’anni, con i migliori del suo tempo. Da Pollack a Pakula, da Attemborough ad Lyne, apprendendo da loro modi, tempi e meccaniche per fare di un buon film, un ottimo film.
Sicuramente non sarà il blockbuster di Natale ma La Regola del Silenzo merita di essere visto per diverse ragioni. Prima tra tutte perchè è bello davvero. Poi perchè in tempi non tanto sereni come quelli in cui stiamo vivendo, Redford, al costo di un biglietto del cinema, offre allo spettatore una storia che, senza cadere nel sensazionalismo e senza ricorrere all’espediente da botteghino degli effetti speciali emoziona, fa riflettere ed appassiona più e meglio di tanti altri film.
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