A.C.A.B.

Regia: Stefano Sollima
Anno: 2012

Il titolo, slogan del movimento skinhead, è l’acronimo di “All Cops Are Bastards” (tutti gli sbirri sono bastardi), ma anche un interrogativo. E il film risponde (a modo suo).

Film d’esordio di un regista di serie tv introdotto al crimine dalle puntate di  Crimini e di Romanzo criminale – La serie, al quale è legato Pierfrancesco Favino, già libanese nel Romanzo Criminale (2005) di Placido ed attore di punta del cast di A.C.A.B..

L’idea era, forse, quella di affiancare e rendere indistricabile il volto del criminale e quello della “guardia”, ma l’esperimento non è riuscito. Favino non si sgancia dal ruolo di “delinquente” (e questa pare già una critica).

Lo “sbirro”, maschera antigas, protezioni, scudo e manganello non ha un’identità. E’ un mostro dai mille volti che ha gli occhi del poliziotto di prima nomina, proletario con la madre in sfratto coatto (l’Adriano interpretato da Domenico Diele) o quelli del poliziotto al quale è stata tolta la patria potestà (il “negro”, Filippo Nigro). E’ agitato dalle pulsioni poco civili (e molto fasciste) del picchiatore di turno, dell’indignato contro l’extracomunitario beone, che sporca, abusivo (anello debole – quindi attaccabile – di una catena che parte dall’alto e si ricongiunge alla base sociale, attraverso il collare stellettato dell’ennesimo, inglorioso, “servo del potere”).

Celerini come servi, quindi, del politico di turno che promette e non mantiene, dello Stato percepito come impietoso con gli onesti. Impiegati disadattati che hanno “paura” di rischiare la vita per 1200 euro al mese. Stipendio che non basta a campare o ad iniettare coraggio e dignità, ma che – il G8 di Genova insegna – è integrabile col permesso di razziare (liceità che ricorda le marocchinate francesi della seconda guerra mondiale). I protagonisti di A.C.A.B. lo tirano in ballo a mezza voce, quel G8: “forse abbiamo esagerato”.

Periodo ipotetico che è condanna diretta ed autocritica “di sponda”.

Sollima tira in ballo sempre gli stessi istinti violenti, come un puparo che cambi le quinte del suo teatrino, ma non le marionette. Gli sfratti, i parchi infestati di nullafacenti, gli stadi, le strade, il covo dei neofascisti romani (rappresentati come corpi rasati che ballano ska, scimmiottano il passato ma non lo accettano e si fanno scudo contro il Mazinga interpretato da Marco Giallini, sbirro-squadrista ad un passo dalla pensione), non c’è legge che inibisca la violenza della legge.

Lo sbirro sembra indignarsi solo quando è un altro sbirro ad essere ferito o ucciso.

La legge violenta può solo implodere, demolita dalla dignità morale, dallo spirito di corpo e di servizio, dal rispetto della costituzione e dell’istituzione di cellule isolate, non assimilate al sistema. Cellule giovani, senza passato, senza storia, senza potere.

Il finale è debole. Anche la presa di posizione della recluta che denuncia i suoi commilitoni violenti non ha la forza di una condanna definitiva, ma lo spessore di un “con voi non ci gioco più”.

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