It

Regia: Andy Muschietti

Anno: 2017

Ottobre 1988: autunno e pioggia fredda, la tempesta perfetta per l’esondazione del male. Giugno e agosto 1989: due interludi di un’estate che per il gruppo di Losers non sarà mai davvero tale. Settembre: una tregua passeggera dal buio dei pozzi neri, se è vero che saranno spalancate porte ancora più scary su un nuovo ciclo di vita e di morte.

Sono stagioni diverse quelle inseguite da Andy Muschietti e dal suo trio di sceneggiatori per It, rispetto all’arco temporale del romanzo di King, in costante scivolamento tra l’epica battaglia dei Perdenti nell’estate del 1958 e l’inevitabile sequel da adulti riuniti nei tardi ’80 – segmenti travasati l’uno nell’altro come in dissolvenza incrociata. In attesa di scovare i Perdenti cresciuti in veste cinematografica, dice molto il fatto che per Muschietti e sodali, nel processo di compressione narrativa, gli opulenti e smaltati Ottanta condensino non già gli anni della maturità consapevole, della fatale resa dei conti (con il mondo, con se stessi, con il Male), ma piuttosto l’età del calderone acerbo e irrisolto di fremiti, traumi e inquietudini preadolescenziali.

Scelta di tendenza, a dire il vero quasi obbligata per catturare il variegato fandom della rimembrazione nostalgica e citazionista che ha eletto prodotti come Stranger Things a nuovo corpus di riferiment…i per la serialità teen horror e sci-fi (quel “Capitolo 1” affisso ai margini del film ci ricorda che lo stesso It intende porsi come genesi di un franchise).

La stessa release della seconda stagione di ST pressochè a ridosso del film di Muschietti non fa che incoraggiare incroci, rimandi, reminiscenze vicendevoli.  Quel percorso comune del male ciclico e proteiforme – avviluppato alla ridente cittadina di turno – che lavora in sovrapposizione fino a confondere, tra le stesse fogne e gallerie, le biciclette scorrazzanti in gruppo, le tensioni tra i ragazzi, le sparizioni dei bambini, l’irruzione dell’amore. Valga per tutti l’innesto di Finn Wolfhard/Mike nella banda kinghiana (l’occhialuto Richie Tozier “boccaccia”).

È sul versante dell’immaginario cinematografico, sul terreno dei fondamentali della paura – quella iconica e primigenia dei ragazzi, le più facile, per It, da interpretare e mettere in scena – che il film di Muschietti opera una scelta precisa spezzando l’incantesimo saturo della stratificazione dei materiali e il ricorso alle figure canoniche da cineteca orrorifica.

Se i nerd di Stranger Things 2 sono anzitutto animali da cinema, per cui le loro azioni e contromosse, nemici e mollicce creature setacciate paiono fuoriuscite direttamente dalle pellicole che divorano e idolatrano (l’omaggio a Ghostbusters nel secondo episodio, o i prestiti da Alien), molto semplicemente, e curiosamente, i ragazzi di It non vanno al cinema, né sembrano in alcun modo cinefili da salotto. Mai che li si veda entrare in una delle sale cittadine su cui pur campeggiano i titoli dei grandi giustizieri dei blockbuster fine anni ’80 (Batman e Arma Letale). Pressati dalla minaccia reale, non hanno il tempo di subire il fascino perverso della fiction. Al massimo è la Tv zuccherosa a irradiare la cantilena omicida in Henry Bowers (poco più che uno scagnozzo, drasticamente depurato della ferocia irrazionale pensata da King).

Spauracchi da incubo e segrete nemesi del terrore non provengono allora tanto dagli spaventi cinematografici (spesso è così nel romanzo), dai topoi da film dell’orrore Universal, con le comparsate di mummie, licantropi, uccelli giganti e mostri della laguna che infestavano la narrazione kinghiana. It si scopre molto più monoteistico nella sua lurida clownerie, figura base nella “polla dei miti” da carrozzone, arcaica ombra cinese – sulle diapositive al buio di un garage, in cui, ancora una volta, fa a meno del cinema e si anima pur con la spina staccata del proiettore -, archetipo eccessivo di coulrofobia circense (la magnifica scena con Richie accerchiato da mille pupazzi-pagliaccio).

Riversando ogni guizzo – anche sonoro – e  jumpscare sul faccione cerato di stucco e sulla carcassa snodabile di un villain da antologia che fagocita lo schermo saltando come una sveglia impazzita, –  e che vive di vita propria a monte e persino fuori dal film, immortalato in quel canale di scolo da meme e parodie virali (la cui fissazione nell’immaginario collettivo va probabilmente ascritta al Tim Curry dell’It televisivo) –  il macabro carosello di apparizioni può così permettersi connotazioni psicoanalitiche più sottili e disturbanti, sottolineando rapporti malsani, edipici, abusivi con la controparte genitoriale.

I nervi scoperti su cui la sceneggiatura insiste e It affonda i suoi dentacci sono specifico segnatamente umano, riconducibile alla sfera di un reale non riconciliato (il perturbante familiare di Bill e il fratellino ritornante, mani e corpi intrappolati arrostiti sotto gli occhi di Mike Hanlon, la sindrome di Stendhal di Stan Uris e l’ipocondria di Eddie Kaspbrak, diversamente castrati da un materno mostruoso). È il modo in cui si tradisce e al contempo più si è fedeli all’opera di partenza: la magica empatia fanciullesca e l’indicibile sofferenza invisibile del King più coraggiosamente intimista svestite dei costumi horror-trash dei mostracci a grana grossa.

Poi, certamente, non siamo nella culla e nella stanze di horror sottrattivi polanskiano-bergmaniani, ma nel baraccone macilento e puzzolente di un ghignante artista del terrore ad effetto che incamera una girandola di numeri e azzeccate scene clou (il bagno di Beverly inondato di sangue, su tutte), fino alla resa visiva della metafora del galleggiamento di quei corpi infantili audacemente mozzati, per un prodotto comunque mainstream.

Un gigantesco pozzo nero in cui si cade, ci si tuffa, o si sceglie di non guardare.