JERSEY BOYS
Regia: Clint Eastwood
Anno: 2014
Quando esce un nuovo film di Clint Eastwood si è ormai davanti ad una certezza, una garanzia di qualità che mette d’accordo critica e pubblico. E tenendo conto del ritmo con cui il vecchio Clint gira i suoi film, non si può che rendere merito a tanta prolificità, tanto più che quasi mai sbaglia un colpo.
Questa volta è alle prese con un musical che arriva sul grande schermo direttamente da Broadway, dove ha avuto circa 3500 repliche dal 2005 ad oggi, vincendo quattro Tony e un Grammy Award. L’idea alla base del musical è tanto semplice, quanto vincente: raccontare la storia di Frankie Valli e dei Four Seasons come un pezzo di storia americana. Gli inizi difficili, il successo travolgente e infine la rottura, il tutto sullo sfondo dell’America anni ’60 e dei retroscena del sorridente quartetto: i rapporti con le famiglie, le tensioni all’interno del gruppo, i debiti e i contatti con la mafia.
La pellicola mescola due componenti del cinema classico americano: il gangster movie e il musical. Il giovane Frankie (John Lloyd Young), italoamericano dalle umili origini e un po’ impacciato, si muove tra le strade del New Jersey facendo piccoli furti e aiutando l’amico più “sgamato” Tommy De Vito (Vincent Piazza), al servizio del boss della zona Gyp De Carlo (Christopher Walken). I due hanno però in comune anche la passione per la musica, che li spinge a farsi notare prima in piccoli locali del quartiere e poi in spazi sempre più importanti con il gruppo allargato a quattro elementi. Quando il successo arriva, tutta l’America impazza per canzoni come “Sherry”, “Big girls don’t cry” e “Walk like a man” e, ovviamente, per i quattro ragazzi dal mood giovanile e garbato.
Jersey Boys riesce perfettamente a ricreare un periodo, un’atmosfera, un’America che ancora pensava di essere innocente e guardava con speranza al futuro, quando i ragazzi con la brillantina portavano a ballare ragazze dalle gonne ampie e dai maglioncini colorati e al suono di una canzone il cuore palpitava d’amore.
A tratti il film potrebbe ricordare un certo Scorsese, le famiglie italoamericane, le liti, i locali notturni, la malavita e probabilmente nelle sue mani questo sarebbe stato un altro film. Ma i personaggi di Jersey Boys non sono così dannati e tormentati come quelli scorsesiani; la testa più calda del gruppo è Tommy De Vito, ma in fondo non fa nulla a cui non si possa porre rimedio, mentre gli altri sono tutti proiettati nel mondo della musica, sognando di sfondare alla radio e nei programmi televisivi.
Lo showbiz è una macchina impietosa che si muove solo dove c’è odore di guadagno e di soldi e i quattro giovani imparano ben presto cosa vuol dire tentare il salto dai locali del quartiere al contatto con un pubblico ben più vasto. Già altri film avevano mostrato il meccanismo del business musicale e delle etichette discografiche, come Dreamgirls (Bill Condon, 2006) e Cadillac records (Darnell Martin, 2008), per citare solo due titoli, ma le scene girate all’interno del Brill Building, vero e proprio tempio dell’industria musicale, sono una chicca per gli appassionati e restituiscono lo spaccato verosimile di una caotica fucina di talenti e successi articolato su più piani.
L’interesse di Eastwood per la musica non è nuovo e infatti ha realizzato ispirate colonne sonore per diversi suoi film e in passato si è misurato con una pellicola musicale come Bird (1988). Jersey boys si lascia piacevolmente seguire nelle sue due ore abbondanti, instaura con il pubblico un rapporto dialogico (e quasi metateatrale) grazie ai protagonisti che si di quando in quando si rivolgono agli spettatori, ma non ha nessun guizzo particolare e a tratti sembra quasi didascalico, come un compito svolto nel rispetto delle regole, ma senza che si accenda mai quella scintilla che lo illumini.
Clint, dopo solide regie come Gli spietati (Unforgiven, Oscar miglior film e miglior regia 1993), Mystic river (2003), Million dollar baby (Oscar miglior film e miglior regia 2005) e Changeling (2008), mantiene anche in questo film lo stile classico che gli è proprio, dirige bene gli attori e realizza un lavoro onesto. Non è pienamente riuscito e non è personale (probabilmente il fatto di misurarsi con una produzione teatrale avrà posto certe condizioni), ma è sostenuto dalla valida recitazione di tutti gli attori (John Lloyd Young ha interpretato Frankie Valli anche a Broadway) e da canzoni che hanno fatto la storia della musica pop americana e che tutti abbiamo sentito almeno una volta nella vita.