Regia: Jim Sheridan
Anno: 2011
Che cosa si cela dietro le delicate spoglie di una casetta di periferia tipicamente middletown? Ahinoi non è difficile scoprirlo in questo film che spudoratamente saccheggia un po’ alla rinfusa nel tòpos horror dell’abitazione (fin dalla locandina, Stanley Kubrick ce ne scampi, figlia illecita delle gemelline targate Shining) senza giustapporre i pezzi in maniera adeguata.
La claustrofobia manca tanto quanto un avvincente filone narrativo che viene costruito in maniera troppo didascalica e seriosa inciampando inevitabilmente nel grottesco ed accennando ad una natura introspettiva non adeguatamente maturata, scarsamente retta da prevedibili logiche intersequenziali (i rarissimi flashbacks abbozzati quasi con timidezza).
Dream Housesi configura dunque come qualcosa di già visto, o quantomeno di facilmente pensabile, che vaga incerto dalle atmosfere pregevoli del Sesto senso di Shyamalan del 1999 (letteralmente, e più palesemente, predando il The Others, diretto Amenabar nel 2001) al diametralmente opposto vertice della parabola: l’action b-movie di intrighi e tradimenti.
Ciò che ne risulta è un’incertezza di fondo nell’identificarsi in un genere (caratteristica non costituente un disvalore di fatto) ed una struttura speculare che sembra voler sezionare la pellicola in due metà circolari, come a voler creare un telaio tondeggiante che giustifichi l’inizio una volta visionata la fine.
Di per sé l’idea di fondo dunque non è male se non fosse che il soggetto, decisamente povero, e l’impegno attoriale davvero sottotono (la finta misteriosa Naomi Watts sembra un’altra persona rispetto all’alter da lei impersonato nei, stavolta sì, superbi Funny Games di Haneke [1997-2007]; visto che di case si sta parlando) rendono la già di per sé stessa esile sceneggiatura non meritevole di essere indagata a fondo.
La Casa dei sogni di Sheridan pare rappresentare più un vizio di forma che una vera e propria opera cinematografica, un lavoro fatto controvoglia.
La regia disadorna (si resta increduli pensando a Brothers del 2009 e del medesimo regista) incapace di rielaborare gli arcinoti meccanismi della suspense: scale semibuie, tintinnii di incognita origine, venature psicopatologiche non degnamente esplorate, bimbe dai sensi acutizzati, casa dorata e fatiscente grazie a fotografie opacizzate e calde in contrasto con una casa in decomposizione sul modello del repellente Silent Hill diretto da Gans nel 2006 (trasposizione intersemiotica dell’omonimo, e meno anonimo, videogioco).
Il film ricade, quasi volutamente, in quei cliché stilistico-semantici che un genere come il thriller-horror-paranormale-cosaindefinita cerca solitamente di evitare per puro spirito di autoconservazione.
Non c’è coesione, né passione, gli elementi sono tutti interscambiabili in quanto mancano di reciproca fiducia e cardinalità. Quasi non valesse la pena interrogarsi sui torbidi segreti nascosti fra le mura della vill(ett)a. Fu costruita sopra un cimitero indiano? Fu sede di pluriomicidi o sanguinolenti riti orgiastici? È frutto di speculazioni immobiliari o si tratta di multiproprietà? Poco importa, uno vale l’altro.
Resta infine da chiedersi se questa casa da incubo sia in qualche modo collocabile, se cotanta monotonia sia frutto di un non congruo sforzo ermeneutico, se l’eccessiva fallacia delle dinamiche rappresentate voglia essere un grido anarchico di protesta o un tentativo di ritorno a genuinità primordiali.
Forse si tratta solo di domande forzose che provano l’esistenza dell’utile e dell’inutile e, comunque, un po’ di avversità è da ritenersi motivata, dal momento che Dream House dal canto suo ci intima di non aprire la di lei porta, perché il pericolo (di addormentarsi) è dietro l’angolo.
Punti di forza: rarissimi. Forse le scenografie innevate che fanno pensare al Natale.
Punti di debolezza: non spariamo sulla Croce Rossa.