La gente che sta bene

La gente che sta bene 1Regia: Francesco Patierno
Anno: 2014

Ma la gente che sta bene mira esclusivamente ai soldi o si dedica alla famiglia? Insomma, il Claudio Bisio arrivista, azzeccagarbugli e storpia-nomi, o quello improvvisamente “arrivato” spingendo la carrozzina di un bebè? Il successo economico ad ogni costo, o gli affetti da (rin)saldare?

Il film di Francesco Patierno (tratto dall’omonimo romanzo di Federico Baccomo/Duchesne) (si) illude con umorismo caustico, simpatia cialtronesca e perfidamente magnetica, cinismo nero e scorrettezze maliziose.

Toni e registro quasi da dark comedy, purtroppo sprecati e ammorbiditi al giro di boa del film. Confondendo così il messaggio, virato verso un buonismo familista, regressivo, infantile e gigionesco.

La commedia italiana (perché tragedie a parte, qui di commedia trattasi), anche nello studio illegale dei liberi professionisti d’assalto e dell’eterno clientelismo paesano, evidentemente non vuole (o non sa essere) cattiva e spregiudicata fino in fondo, proprio come l’avvocato Umberto Dorloni.

Tra gli spazi chiusi di uffici e sale riunioni seguiamo le grandi manovre del protagonista, appena licenziato dal superiore ma in procinto di affacciarsi tra i pezzi grossi della società. O meglio, tra i “piccioni” che contano, visto che per lui anche i pennuti fra le strade di Berlino guardano al futuro con più determinazione e senso degli affari degli stupidi uccellacci del cortile nostrano.

La gente che sta bene 2In barba alla crisi,  top manager, consulenti e finanzieri sono i nuovi pirati all’arrembaggio, ciurma di roboanti avventurieri del capitale. “Oggi il conte di Montecristo sarebbe il presidente di Unicredit”, dice Dorloni. Sinceramente convinto che Colombo, certo di raggiungere l’America, abbia bluffato sulle Indie per assicurarsi cospicui finanziamenti (un precursore dell’insider trading?).

Trasformismo opportunista (Dorloni osserva in tv una delle maschere attoriali di Totò Diabolicus, Steno, 1962), furti di identità e giochi di ruolo, prima ancora che di potere (alla festa si spaccia per Zorro ottenendo un riconoscimento immeritato).

“Il paese è in ginocchio? Che ce lo succhi, allora!”, continua Dorloni. L’ambizioso ignorantello medio-borghese che tenta l’ingresso alla corte nobiliare del leggendario anfitrione Patrizio Azzesi (Diego Abatantuono). Riconoscendovi compiaciuto, dietro gli smoking e i papillon portati all’antica, la sua stessa, tronfia, esibita ed impunita volgarità da salotto buono.

In questo ricorda l’immobiliarista brianzolo Dino Ossola interpretato da Fabrizio Bentivoglio ne Il capitale umano di Virzì.  Due personaggi, l’Ossola e il Dorloni, orgogliosamente eccitati per l’ammissione al circolo esclusivo del podestà milanese di turno (il Bernaschi di Virzì come l’Azzesi).

Anche Azzesi, come già il Bernaschi, con il socio improvvisato (la persona “speciale”, il “nuovo uomo italiano”), passa da entusiasmi, complicità e confidenze, quando gli affari sembrano decollare, a un fermo rigetto e alle minacce intimidatorie, appena qualcosa si incrina.

La scena in cui scansa sbrigativamente l’illuso Dorloni con la scusa di una riunione, è quasi la stessa vista ne Il capitale umano.  Rispetto all’Ossola, il Dorloni è solo meno cinico e squallido, incapace di approfittare fino in fondo delle disgrazie altrui.

Per volare alto, ci vuole stoffa. Altrimenti si precipita picchiando la testa sul vetro dell’ufficio, come un piccione qualsiasi. Solo i veri squali/falchi (Azzesi e Bernaschi) restano rapaci e impietosi fino alla fine, imperturbabili anche di fronte alla morte di chi gli è vicino.

La gente che sta bene 3Le similitudini con Il capitale umano (anche l’incidente d’auto come snodo narrativo) rivelano tuttavia esiti differenti. Se nell’opera di Virzì si assiste alla dispersione, alla svalutazione e al deprezzamento di un capitale affettivo, relazionale, artistico e culturale nei sommovimenti della finanza, La gente che sta bene illustra un percorso di conversione (del manipolatore pentito) e di riconversione del patrimonio monetario in quello famigliare e filiale. Riconosciuto in definitiva come l’unico vero investimento (di valori) a lungo termine.

Il “capitale umano” Patierno lo affida all’uomo di casa redento, neo-mammo a tempo pieno. Lasciando quello finanziario in dote alla moglie (Margherita Buy), che aveva abortito una brillante carriera professionale per l’impiego genitoriale.

In un epilogo schematico che elimina i chiaroscuri e banalizza le premesse. Risolvendosi in una sterile strizzata d’occhio alla superiorità morale della donna in quanto donna. Con l’affarista Raul Cremona (?) in brodo di giuggiole al cospetto dell’attraente manager.

Dunque, buoni o cattivi, stanno tutti bene. Tranne questa commedia, in balia di un massiccio product placement e, ancora una volta, serenamente inoffensiva. Come un infarto mimato.