Her di Spike Jonze vanta un numero di rionoscimenti a livello internazionale a dir poco sconcertante: cinque candidature agli Oscar 2014, tra cui quella per miglior film e migliore sceneggiatura originale, premio per la migliore sceneggiatura, nomination per miglior attore protagonista a Joaquin Phoenix e nomination come miglior film o commedia musicale ai Golden Globe 2014, al Festival Internazionale Del Film di Roma 2013, invece, Scarlett Johansson si porta a casa il premio per la migliore interpretazione femminile, mentre Jonze viene insignito del Mouse D’Oro, il premio assegnato dalla critica on-line, e ancora ben cinque candidature e il premio per la miglior sceneggiatura al Critics’ Choice Movie Award, premio per miglior film e miglior scenografia conferita dalla Los Angeles Film Critics Association a cui si aggiungono numerosi altri premi in kermesse di minore fama.
Le ragioni dell’entusiasmo generale per questa commedia sentimentale atipica e pregna di elementi Sci-Fi sono certo più di una, a cominciare dall’estrema piacevolezza di fruizione che ci regalano le immagini di Jonze (Being Jhon Malkovich– Essere Jhon Malkovich, 1999) spesso curatissime dal punto di vista fotografico, animate da cromatismi vivaci ma mai aggressivi e da una luminosità morbida, che nell’evitare i forti contrasti e le esasperazioni offre il giusto supporto iconico a una tessitura emozionale intimista e delicata.
Di Joaquin Phoenix ricorderete certamente la splendida parte del perturbato reduce Freddie Quell che ha sostenuto in The Master, del 2012 (regia di Paul Thomas Anderson) e l’umbratile interpretazione che ha offerto del cantante Jhonny Cash in Walk The Line (Quando L’Amore Ti brucia L’anima, anno: 2005, regia: James Mangold), per la quale vinse un Golden Globe e una nomination agli Oscar come miglior attore protagonista.
La sua nuova creazione attorica si chiama Theodore, vive in un futuro prossimo non troppo dissimile dal nostro presente, lavora per un servizio di lettere conto terzi, ha un animo gentile, melanconico e propenso all’introspezione. Dopo una dolorosa separazione trascina un’esistenza sciatta e attonita su cui i ricordi struggenti della bella moglie e del figlioletto, che spesso ritornano, gettano una luce livida, più che un dolore vero e proprio un senso di inconsolabile abbandono, di insuperabile isolamento.
Questa sua consistenza emotiva filtra tutta attraverso la recitazione di Phoenix, mobile e attenta, fatta di variazioni minime della mimica e dell’espressività e che per questa sua natura trova la propria apoteosi nei ricorrenti e intensissimi primi piani. Qui il volto dell’attore, che occupa la totalità del campo visivo per tempi estremamente lunghi, diventa una sorta di mappa emozionale in scala ingigantita, in cui le rughe d’espressione, le variazioni tensionali dei muscoli del viso, gli accidenti della pelle, divengono i disegni e le strade di un percorso nei sentimenti, di un viaggio nell’interiore.
L’anodina esistenza del nostro Theodore avrà una svolta del tutto inaspettata (per lui e sopratutto per lo spettatore) quando acquisterà un sistema operativo di ultimissima generazione, un OS1, il cui spot significativamente recita: Un essere intuitivo che ti ascolta, ti capisce e ti conosce. Non è solo un sistema operativo, è una coscienza.
Samantha, questo è il nome che l’os1 si attribuisce autonomamente, inizia a mnifestarsi attraverso l’accattivante voce di Scarlett Johansson, la quale per tutto il film resterà presenza disincarnata e acusmatica, priva di corpo eppure presentissima grazie a una personalità debordante, premurosa e presente, curiosa e comunicativa, in grado di sciogliere l’inverno ferrigno che stringeva la vita di Theodore. Come in ogni commedia sentimentale che si rispetti, per quanto questa tenda a rivoluzionare un po’ tutti i Cliché di genere, la novella coppia andrà in contro a vicissitudini e rovesci emotivi che per la natura peculiare (virtuale) di uno dei due amanti qui assumeranno una connotazione quantomeno paradossale e inattesa.
E questa esigua tessitura narrativa è sufficiente a Jonze per innestare nel proprio testo un vastissimo portato riflessivo e tematico che non teme, a quanto sembra, le domande filosoficamente importanti, mentre stringe il proprio spettatore all’interno di un percorso di senso e di interrogazioni preciso, mirato e consapevole.
La spiccata umanità di Samantha non può non suscitare empatia in chi la ascolta e il suo essere così umanamente sim-patica, lolitesca, umorale e sensibile non può non spingerci verso i lidi della più profonda ridiscussione ontologica dei limiti che separano il concetto di persona da quello di non-persona, o come nel caso nostro di macchina.
E’ancora possibile parlare di sistema operativo, ci chiediamo insieme a Jonze, in presenza di una entità non biologica, certo, ma dotata di autoconsapevolezza, di infinite variazioni emotive, di capacità di auto-correzione, insomma, di quella coscienza di cui favoleggia lo spot dei sistemi Os1? E sono poi così diversi dai sentimenti veri di Theodore quegli effetti emozionali simulati che agitano Smantha dall’interno, frutto di calcoli binari, visto e considerato che sono in grado di produrre reazioni come il pianto, l’ilarità, il dolore e il deisderio? E’ dunque il corpo a fare la differenza tra persona e non-persona o l’elemento essenziale risiede nei sentimenti, nei pensieri, in quella coscienza che per via emulativa sembrano aver acquisito anche i sistemi operativi?
Res cogitans o res extensa? Mente o corpo? Jonze sembra ispirato alla più classica delle interrogazioni ontologiche di tradizione cartesiana, se non addirittura alle teorie funzionaliste che identificavano la persona con il suo specifico software mentale (Lewis e Putnam, per intenderci), tuttavia riesce sempre ad evitare con bel garbo atteggiamenti cattetradici e dottorali e il film scorre amabilmente, senza appesantimenti concettualistici evidenti.
In tutta questa costruzione ha un ruolo fondamentale la voce di Scarlett Johansson.
Anzi direi che tutto il film ha una forte propensione vococentrica, nella misura in cui è proprio il mobile strumento vocale della Johansson con i suoi infiniti andirivieni tonali, con le sue molteplici increspature e screziature timbriche a veicolare il forte dubbio che ci assale circa la natura prettamente macchininica dell’emotiva Samantha. Laddove ci saremmo aspettati la classica voce monotonale e robotica, che per tanti annni è stata il sinonimo uditivo della impersonalità e dell’inumanità dei computers cinematografici, in Her ritroviamo una voce calda e leggermente graffiata, ricca di sfumature e accenti che ricompongono una identità fortemente emozionale, sentiementale, agitata da passioni, che difficilmente lo spettatore riesce a ricollegare alla rappresentazione convenzionale di essere meccanico-artificiale che conserva nella propria memoria.
Voce, questa, che nella separazione da un corpo visibile diviene proposizione della dis-identità: dis-identità dall’idea astratta di macchina, che per via vocale acquisisce una emotività che non pensavamo le spettasse e dis-identità dalla definizione di umano che conosciamo, che qui è deprivata dell’essenziale componente fisica e tangibile.
Il discorso sulla corporeità, d’altronde, permea un po’ tutta la costruzione scritturale (sceneggiatura) di questo film, nella misura in cui è proprio la differente consistenza fisica dei due innamorati a costituire il limite invalicabile che li divide, a gettare il dubbio sulla perfezione della loro unione e, in fin dei conti, a fornire il nucleo narrativo di partenza di tutta l’opera.
Proprio questo tema fornisce lo spunto a una delle scene più grottesche e gustose di tutto il film, tanto per fare un esempio che ne chiarisca il peso narrativo, in cui Samantha, ossessionata dal desiderio di congiungersi fisicamente al suo amato e quindi di superare lo iato ontologico che li divide, arriverà a costringere un imbarazzatissimo Theodore a un amplesso, goffissimo nelle modalità e sconfortante negli esiti, con il corpo prestato da una giovane volontaria collegata al sistema operativo tramite web-cam, sensori e auricolare.
E’ anche per queste sue intemperanze che non percepiamo Samantha come una semplice macchina, un algido sistema operativo perchè troppa è la carica emozionale e personalizzante che risuona in quella voce e in quei comportamenti, d’altro canto, non potendo visualizzarla, non dotandola di un corpo in cui racchiuderla, non la intendiamo neanche come una persona, non per lo meno nel modo in cui intendiamo persona Theodore, che vive attraverso il corpo prestato, ma tangibile, di Joaquin Phoenix.
E’un’identità terza quella che emerge in Her, un’ibrido che nella scala evolutiva degli esseri artificiali cinematografici ha una sua collocazione specifica.
Nel corso del film, infatti, scopriremo che nel loro ambiente virtuale, e indipendentemente da qualsiasi possibilità di controllo da parte del genere umano, Samantha e gli altri Os1 si stanno aggregando autonomamente tra di loro, creando dei veri e propri sistemi di sistemi operativi dotati di mostruosa potenza di calcolo e di sterminati repertori di nozioni. Una forma di intelligenza virtuale e aggregativa che dopo aver assimilato i modelli psico-comportamentali dell’uomo si avvia a generare una forma di coscienza nuova, collettiva, incorporea, autonoma.
Dal punto di vista storico (parliamo di fanta-storia, ovviamente) dunque ci troviamo in una possibile fase aurorale, in una probabile preistoria, di quel corso evolutivo il cui prodotto maturo saranno quelle intelligenze artificiali nemiche del genere umano e completamente autosufficienti per capacità decisionale e di riproduzione che (penso all’ipertrofico programma Matrix, della saga omonima, ma anche allo Skynet, la forma di intelligenza artificiale che domina il mondo nel futuro distopico dei vari Terminator).
Jonze, dunque, non frequenta, o forse per una questione meramente cronologica, supera d’un balzo, tutto quell’insieme di logiche ideative e tratti ricorrenti che erano stati il patrimonio condiviso della precedente generazione di creatori di forme di vita artificiale, Cronenberg, il Ridley Scott di Blade Runner (la tragica figura di Roy Batty-Rutger Hauer) e di Alien (Bishop, al secoloLance Henriksen), il Cameron di Terminator e perfino di Tsukamoto Shin’Ya, per i quali l’assimilazione macchina-umano (o umano-macchina, nel caso di Tsukamoto) era da perseguirsi innanzitutto attraverso la replicazione del corpo e l’ibridazione di materiali organici con componenti artificiali varie. Samantha, degli umani, replica proprio quello di cui Roy Batty era alla ricerca disperata, l’essenza della vita, l’anima, la coscienza e si libera definitivamente solo di quell’elemento che ci costringe nelle angustie dello spazio fisico, che è soggetto a stanchezza, a inefficienza e malattia che è il corpo biologico. Quella di Samantha è una dimensione dell’esistere puramente virtuale e dunque , come essa stessa dichiara, priva di limiti e separazioni spaziali, ma sopratutto fondata sulla interconnessione totale tra i vari soggetti pensanti che ne fanno parte, i quali a fine film si iniziano a organizzare in una sorta di gigantesca web-coscienza condivisa.
Il cambio di prospettiva è piuttosto consistente, se si pensa che prima l’umano era dato come modello ideale cui l’essere artificiale doveva tendere per considerarsi compiuto, perché solo eguagliandolo poteva sperare di raggiungere la perfezione, mentre nel caso in esame rappresenta un mero materiale grezzo di partenza. Per la nuova generazione di intelligenze artificiali la riproduzione in ambiente virtuale dei processi psichici del genere umano, l’implementazione dei suoi modelli cognitivi ed emotivi, fornirà solamente il punto di partenza per una parabola evolutiva (ed evoluzionistica) che consentirà di raggiungere un grado di perfezione superiore, una forma di esistenza enormemente più funzionale di noi rispetto all’ambiente iper-accelerativo e iper tecnologico in cui già oggi ci troviamo a esistere e che prevedibilmente evolverà sempre più in questa direzione.
E da questo tipo di considerazioni si evince anche l’altro grande tema che quasi di sottecchi ci spia tra le pieghe di questo film: il tema del superamento del modello biologico-umano da parte di quell’ambiente iper industrializzato e tecnologico che egli stesso ha creato, ma rispetto al quale oggi è diventato inadatto, troppo lento nell’assimilare e gestire flussi sempre più esondanti di informazioni, troppo limitato da vincoli fisici che lo inchiodano in un solo luogo e in un tempo mono direzionale, schiavo della legge inesorabile dei bisogni fisiologici che ne limitano l’efficienza, come il bisogno di sonno, la fame e la sete.
Jonze ha l’arguzia di lasciar filtrare questo corposo pondus concettuale solo a tratti e con piglio divertito, vagamente grottesco, evitando di ingolfare il percorso dello spettatore di sofismi auto indulgenti, ma creando brevi scene brillanti e significative, come quando uno sbigottito Theodore scopre che la sua amata Samantha, mentre è intenta in amorosa e tubante conversazione con lui, è contemporaneamente impegnata in diverse altre migliaia di chat di conversazione simultanee, e addirittura che negli ultimi tempi, avendo rilevato la presenza in rete di altri sistemi operativi con i quali condivideva elevati gradi di affinità, aveva sviluppato diverse centinaia di rapporti affettivi analoghi a quello che la legava a Theodore, senza che questo per lei togliesse nulla alla loro relazione.
Maggior capacità di gestione della quantità e della rapidità degli scambi di informazione, maggior capacità di sviluppare empatia verso gli altri soggetti della comunità di appartenenza, come dicevo prima, senza più l’ingombro del corpo che ci separa, che ci limita, eccolo il futuro che ci supera viaggiando alla velocità infinitesimale dei cicli di un processore al silicio.
E sul tema della comunicazione si insiste molto in questo film, sin dal suo incipit, in cui apprendiamo che il nostro protagonista di professione scrive lettere, spesso anche piuttosto intime, per persone che hanno ormai perso la capacità di comunicare i propri sentimenti e pensieri ai propri cari, familiari e amici e che dunque necessitano di un professionista della comunicazione per riuscire ad eserecitare una funzione che a noi sembra naturale come respirare. Questa umanità muta, che parla solamente la lingua delle mail e delle e delle chat, questa gente anonima e anafettiva, poi, si muove in un ambiente in cui i processi della comunicazione e della sua medializzazione-virtualizzazione sono continuamente ribaditi attraverso la presenza ostentata e iper moltiplicatoria di dispositivi che virtualizzano l’atto del comunicare, che impediscono, cioè, il contatto diretto tra i soggetti comunicanti. Auricolari minuscoli e fanta-futuristici che integrano web, mail, agenda, fruizione di contenuti multimediali divengono, attraverso la voce sintetica del sistema operativo a interazione vocale il principale, se non l’unico interlocutore degli individui. Un tripudio di touch-pads e computers immaginifici sempre più piccoli e potentissimi, che rinvia continuamente alla sfera di significati che attiene al digitale e al virtuale.
Un film di fantascienza alquanto atipico e un’altrettanto atipica commedia sentimentale brillantemente incastrati, insomma, un tutt’uno che da un lato evita le scelte eclatanti e gli atteggiamenti iperbolicistici cari al genere Sci-Fi, come gli alieni mostruosissimi, le astronavi e i robottoni giganti, le battaglie interstellari ad alto gradiente di spettacolarità ecc., e dall’altro schiva le cadute sentimentalistiche e le banalizzazioni che funestano le commedie a sfondo amoroso dei giorni nostri, e dunque abiura il tipico buonismo sentimentalista tipico delle produzioni statunitensi di questo tipo e ci risparmia il classico armamentario fatto di sdolcinati happy ending, passioncelle stereotipate e attori bellocci e inconsistenti.
Un costrutto di quelli solidi, interessante anche per il vasto portato di significazioni e implicazioni extra filmiche, proto-filosofiche, direi, che si porta appresso, pur restando sempre agile e brillante, docile alla fruizione, e ben sostenuto da una prova attorica e mezza (Scarlett Johansson è presente solo come voce, quindi conta come mezza attrice) in grado di fornire un motivo valido per vedere questo film a un pubblico esteso ed eterogeneo per competenza filmologica.