Regia: Andrew Bujalski.
Anno: 2013
Computer Chess è il trionfo dell’estetica proto-geek e delle architetture a 8bit, un racconto fondativo sulle origini del mito del superamento del biologico. Un oggetto filmico atipico e irriverente in cui non è facile rintracciare grammatiche definite. Esiste un’ossatura da commedia sotto questo film, che pure è priva di un vero sviluppo narrativo ed è girata in uno stile documentaristico assolutamente volutamente scabro.
Bujalski, che tutti ricordiamo tra i padri fondatori del movimento mumblecore, ci trasporta ad un convegno di informatici di fine anni settanta dove si tiene un torneo tra equipes di programmatori informatici per decretare quale sia il miglior software per il gioco degli scacchi.
Peter, Martin, Michael, Shelly, Pat e Tom (rispettivamente Patrick Riester,Wiley Wiggins, Myles Paige, Robin Schwartz, Gerald Peary, Gordon Kindlmann) sono il gruppetto di nerds fanatici dell’informatica di cui seguiamo le vicende, la trama che li riguarda tuttavia non è costituita propriamente da una serie di eventi quanto dalla restituzione in termini documentaristici dello svolgimento del convegno-competizione. Ad essere raccontati veramente sono solo i personaggi, le cui personalità quantomeno peculiari emergono da caratterizzazioni ben definite e manifestate in maniera non invasiva, addirittura lieve.
Si delinea allora una accattivante galleria di geeks, hackers, genietti dell’informatica di ogni foggia, che ci fanno sorridere manifestando una curiosa varietà di disfunzioni della personalinità o del carattere, manie e insolite debolezze. In scena vanno gli stereotipi di quell’immaginario nerd legato agli ambienti dell’informatica, come quello del tipo magrissimo e tutto occhiali, negato per l’attività fisica come per qualsiasi forma di relazione sociale, lo psiconauta sempre sballato e visionario, l’aspirante imprenditore dell’informatica millantatore e involontariamente comico e via discorrendo. Dall’interazione tra questi soggetti iper informatizzati e disadatti scaturiscono situazioni dall’ironia godibilissima e non scontata e tutta una serie di microeventi relazionali, attrazioni taciute, ambizioni professionali, rivalità e convergenze che sono però solo accennate e non trovano sviluppo.
C’è un momento però, in questo film, che ha un peso specifico diverso, e in cui si condensa tutto il senso del tecno-pensiero che ne è la base concettuale. Precisamente è quando, terminato il torneo vero e proprio, si svolge l’annuale partita a scacchi tra il mentore della manifestazione, una delle menti più brillanti del paese, e il sofware vincitore di quella edizione. Dopo anni di indiscusso stradominio dell’umano arriva il fatidico momento del sorpasso. l’illustre professore perde. Il passo è storico, qui si fotografa in istantanea la genesi del tema culturale, attualissimo ai giorni nostri, del superamento dell’umano da parte del macchinico-tecnologico, quel filone prolifico di pensiero che moltissimo ha dato alla narrazione scritta e filmata, e i cui figli tardivi in campo cinematografico sono mostruose super macchine pensanti, le intelligenze artificiali auto-coscienti, come quelle di Matrix o come Skynet, il computer totale che domina il mondo futuro in Terminator di Cameron. La macchina che diventa più forte, migliore dell’umano che l’ha progettata, l’inizio di quella parabola che ci regalerà figure indimenticabili come il tragico cyborg Roy Batty (Rutger Hauer) di Blade Runner (Ridley scott, 1982).
L’aspetto che più incuriosisce è certamente la veste stilistica che adotta Bujalski, volutamente sciatta e irrispettosa della bella grammatica, nemica della sontuosità formale. L’algido bianco e nero con cui gira è riconoscibilissimo per la particolare definizione d’immagine e il tipo di grana come prodotto di una tecnologia vintage, gli esperti mi fanno sapere che è stata usata una Sony AVC-3260, le cui riconoscibilissime qualità video forniscono allo spettatore, oltre che un gustoso sfizio vintage, un elemento di forte contestualizzazione della vicenda che a questo punto egli non potrà che collocare in un torno di anni ben preciso, in cui ancora quel tipo di immagini esistevano.
La qualità sintetica che acquisiscono i fotogrammi di Bujalski per questa via formalizza in maniera efficace il contesto retrò–hi–tech che permea tutto il film e sintetizza sul piano del visivo lo stato di asetticità emozionale di questi super-informatici, che manifestano una emotività rarefatta come il colore che la porta sullo schermo.
L’unica scena a colori del film è quella in cui Papageorge, il caricaturale aspirante super imprenditore del digitale a cui vanno tutte storte, torna a casa della madre, luogo di rifioritura del sentimento e di una emotività intelligentemente espressa a livello cromatico.
Ma è un po’ tutta la ricerca estetica che alimenta il micro-universo rappresentato a costituire ragione di interesse, la ricostruzione meticolosa e sottilmente caricaturale di tutta un’estetica, il vestiario, le acconciature dei personaggi, che anche sul piano fisico contribuiscono a caratterizzare quelle personalità eccentriche e geniali, che sono i programmatori nostri protagonisti. Bujalski mette in scena una variante non sofferenziale dell’alienazione cinematografica classica, che i nostri sublimano negli accaniti studi. Per quanto tutti variamente inabili nelle relazioni sociali, inefficenti sotto il profilo caratteriale o psicologico i personaggi di questo film non soffrono. Al cinema l’uomo post-moderno è sofferente per definizione, il numero di registi che associano alla rappresentazione della contemporaneità personaggi dilaniati nell’ interiore, dispersi o violenti è enorme. Sorte questa che però non tocca ai nostri alienati del calcolo binario, che trovano in un’interesse scientifico che lascia poco spazio all’introspezione e nel senso di appartenenza a una sottocultura con codici comunicazionli, individuativi e sociali condivisi, gli elementi necessari e sufficienti per sconfiggere quell’alienazione.
Difficile dire se questo sia un film bello o brutto, non credo che siano queste le categorie di giudizio pertinenti, in questo caso. Di certo però è un film arguto, sottilente ironico e surreale e alquanto atipico sul piano del visivo.
Buona visione.