Regia: Nat Faxon e Jim Rash
Anno: 2013
Duncan, quattordici anni, sta seduto all’incontrario sul sedile posteriore di una Buick, voltando le spalle all’odioso patrigno che lo trascina a Cape Cod per le vacanze estive, insieme a sua madre e alla giovane sorellastra. Chiuso e introverso, Duncan troverà nella giovane Susanna e nell’amicizia con uno scalmanato gestore di un parco acquatico la forza per affrontare la vita.
Girati, rivolti all’indietro, a veder scorrere, come in uno specchietto retrovisore, la strada e l’infanzia che si allontanano a poco a poco, lasciando spazio ad un’adolescenza sdrucciolevole. Per paura di guardare e affacciarsi avanti, su una strada di fronte a sé che ancora non si scorge bene all’orizzonte, e quindi fa paura.
È quest’immagine significativa dell’imbronciato e insicuro Duncan ad aprire The way way back – C’era una volta un’estate, fresco e piacevole racconto di formazione giovanile e disfacimenti familiari diretto dagli sceneggiatori Nat Faxon e Jim Rash.
Coppia all’esordio dietro la macchina da presa che ha alle spalle un solido background di recitazione televisiva (My Name is Earl, Mad Men, La vita secondo Jim, Csi, That 70’s Show) e cinematografica (Minority Report, 2002, S1mone, 2002), oltre a vantare un Premio Oscar per la sceneggiatura non originale di Paradiso Amaro (“The Descendants”, 2011) di Alexander Payne.
E a ben guardare si conferma proprio la sapiente scrittura, brillante e spesso verace, il vero punto di forza di The way way back. Con situazioni e dialoghi spassosi affidati ad un cast di rilievo che assomma volti più o meno noti della commedia americana young adult degli ultimi anni (Steve Carell, Amanda Peet, Rob Corddry, la scoppiettante Allison Janney) ad attori del cinema indipendente (una Toni Collette nuovamente madre alle prese con una famiglia disfunzionale come ai tempi di Little Miss Sunshine, Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006). Con un Sam Rockwell incontenibile animatore-mattatore in pieno delirio di (im)maturità.
Sotto la lente di ingrandimento ci sono gli improbabili e impreparati nuclei familiari improvvisati di oggi (sicuramente retaggio di Paradiso Amaro), fatti di componenti allargati e sentimenti ristretti, osservati dalla prospettiva del problematico Duncan alle prese con dubbi, incertezze e le abissali depressioni di una crescita che sembra difficile.
Il tunnel scivoloso dell’adolescenza tra curve brusche, sbandate (amorose), slittamenti e sorpassi come fra quei tubi vorticosi del parco acquatico (gestito dal bizzarro Rockwell) dove Duncan scopre la gioie dell’amicizia e il peso delle responsabilità. Trovando il coraggio per fare il salto dal trampolino della vita. Gettandosi a testa in giù dentro uno scivolo, per vincere una gara importante come può esserlo solo nell’entusiasmo ingenuo di un quattordicenne.
Il parco-divertimenti, il luogo dello svago spensierato e liberatorio, diventa anche qui centro di affermazione della propria identità, seguendo la linea di molte commedie adolescenziali recenti (e non è un caso che perfino Stephen King, nel suo ultimo romanzo Joyland, lo abbia scelto come sfondo per raccontare il passaggio all’età adulta).
Si pensi ad Adventureland di Greg Mottola, 2009, o al finale di Benvenuti a Zombieland, “Zombieland”, di Ruben Fleischer, entrambi con il Jesse Eisenberg prototipo della generazione-Facebook a cui Duncan sembra non appartenere (niente cellulare, niente social media).
Preferendo rifugiarsi sul tettuccio dell’auto a cantare a squarciagola Can’t fight this feeling dei Reo Speedwagon. Ancora una volta, voltarsi all’indietro per una nostalgia buona, sincera e vitale. La stessa che contagia il più maturo (?) personaggio di Sam Rockwell, che si diverte con le primitive sfide a Pac-Man in sala giochi e rimprovera i giovani bagnanti che non conoscono le imprese di Kevin Bacon in Footloose (1984).
E gli adulti? Proprio non ne vogliono sapere di scendere dalla giostra dello sballo (la scatenata vicina della famiglia di Duncan) e degli sbalzi ormonali.
Come per il pedante patrigno Trent (ottimo Steve Carell), fermo alla casella bamboccione infantile quasi si trovasse all’interno di CandyLand, il gioco da tavolo del quale non sopporta si cambino le regole.
Le stesse regole che Duncan imparerà a trascurare in un finale impeto liberatorio. Facendo così aprire gli occhi alla madre rassegnata, che sceglierà di voltare le spalle alle ipocrisie. Sedendosi anche lei, fianco a Duncan, sul sedile posteriore, a (ri)guardarsi indietro con un moto di speranza.
The way way back non vincerà il Festival, ma è un prodotto godibilissimo, convenzionale ma ottimamente scritto, ben sopra la media di tante teen comedy con velleità pedagogiche che affollano le sale.