Regia: Terrence Malik
Anno: 2011
Terrence Malik è considerato tra i più grandi pensatori e filosofi del cinema contemporaneo. Non sempre facilmente interpretabile, la poetica del regista texano porta il più delle volte al manicheismo dello spettatore, verso la polemica infinita.
Parliamo di un personaggio eclettico, laureato in filosofia ad Harvard ed ex-professore a Yale, regista di sei film in 40 anni, tra cui La rabbia giovane (1973), La sottile linea rossa (1998), The New World – Il Nuovo Mondo (2005). Un uomo che non lascia nulla al caso e cura ogni minimo dettaglio.
The tree of Life è un film potente, di fortissimo impatto visivo; lo spettatore viene letteralmente bombardato da immagini, concetti e precetti filosofici, teologici e scientifici. E’ un viaggio, nel quale veniamo presi per mano dal regista e accompagnati in una digressione estetica e immaginifica del senso della vita del protagonista. La pretesa del film non è di indottrinare, ma quella di raccontare una storia.
La trama ruota attorno alla vita di Jack O’Brien (Sean Penn), cresciuto in una religiosissima famiglia texana degli anni Cinquanta
(palese riferimento autobiografico), educato da un padre severo (Brad Pitt), che non è riuscito a realizzare i propri sogni, e da un’amorevole madre (Jessica Chastain), succube del marito. e un fratello morto a diciannove anni. Ad un certo punto della sua vita, Jack perde la fede, e comincia un percorso di conoscenza e introspezione di se stesso, in bilico tra i caratteri contrastanti dei due genitori: la violenza e imprevedibilità della Natura, simboleggiata dal padre, e la dolcezza e stupore della Grazia, che la madre rappresenta.
Natura, uomo, vita, morte sono i temi che Malik propone. I dolori dell’uomo sono parte del ciclo della natura e sembrano quasi ridicoli se paragonati alle grandi trasformazioni ed evoluzioni della Terra e dell’Universo.
Alla voce narrante fuori campo, in pieno stile del regista, è affiancata una parte di comunicazione non-verbale relativa alle immagini della natura, in cui dal confronto con le dinamiche dell’essere umano emergono l’ordine e il caos.
Così, mentre i minuti passano, il finale arriva a togliere tutte le certezze che fino a lì il film ci aveva dato e ad aumentare il senso d’angoscia. L’unico appiglio è infatti la fede: poter credere in qualcosa che unisca tutto il mondo e aver bisogno di certezze.
Ma allora: Perché non possiamo accontentarci della vita? Perché vivere pensando a cosa verrà dopo la morte?
Questo senso di incertezza che accompagna il protagonista rende lecite, ma ancora più banali e semplici, le nostre paure e le nostre domande. Ecco che allora cerchiamo di dare un senso all’origine e alla fine dell’universo, rimanendo nelle nostre convinzioni. Dopo la vita, Jack si ritrova nella sua immagine di Paradiso, riconciliato col padre (“Dio Mio Dio Mio, perchè mi hai abbandonato?”, Vangelo Mc15), e in armonia con le persone conosciute durante la sua vita, in particolare nella sua giovinezza.
Non cammina più in un aspro deserto o in un canyon, ma in una candida e ampia spiaggia, senza alcuna difficoltà e dolori causati dalla perdita dell’innocenza di biblica e freudiana visione.
Ma anche il più distratto degli spettatori resterà con un rimorso e senso di angoscia: se Malik ha voluto rappresentare il Paradiso in quel modo, fatto di attori non felici, ma anestetizzati dalle loro credenze, allora è abbastanza inquietante rispetto al futuro dantesco che ci eravamo immaginati finora. Ma vivere inseguendo una fede, è tuttavia indispensabile per sopravvivere ai rimorsi.
E, mentre un fuoco generatore, un essere superiore (Dio?) arde nella scena finale, il Sole si spegne, fortificando ancora l’indissolubilità della morte, di fronte alla quale i nostri drammi appaiono ridicoli. Quella è la sua dimensione.
Malik segue fedele quella sua ricerca filmica, con quell’estetica-tecnica su cui sono ricamati i pochi dialoghi. Il film supera le 3 ore nella versione non integrale, probabimente poche per “risolvere” la storia della vita e della terra.
Straordinarie le interpretazioni di Sean Penn, Brad Pitt e Jessica Chastain. La fotografia è sublime, sotto la direzione di Emmanuel Lubezsky, già fotografo de Il profumo del mosto selvatico (Alfonso Arau, 1995), Vi presento Joe Black (Martin Brest, 1998), Alì (Michael Mann, 2001). Il film ha avuto tre nomination agli Oscar 2012 (miglior film, miglior regia e miglior fotografia).